Chi sbaglia paga?? medico e malato divisi dall’errore

Brescia, 16 ottobre 2002 — riflessioni su aumento della consapevolezza dei propri diritti del cittadino, comunicazione scientifica e… capacità di riconoscere l’errore!!
Auditorium Santa Barnaba

Il clima di diffidenza e sospetto alimentato da mezzi di informazione non sempre obiettivi e le forti tensioni cui è sottoposta la medicina moderna in generale, conducono inevitabilmente ad incrinare il rapporto di fiducia medico-paziente vero nucleo centrale di qualsiasi progetto terapeutico.
Il Movimento dei Diritti del Malato, da sempre impegnato nella difesa della salute dei cittadini, si propone di avviare un dialogo tra le parti che impedisca ai pazienti di ritenersi vittime della malasanità e agli operatori sanitari di sentirsi costantemente posti sotto accusa.

Chi sbaglia paga?

Diceva Rebelais nel Gargantua: “Scienza senza coscienza… è la rovina dell’anima”


SOMMARIO

Apertura dei lavori
L’incontro e il dialogo tra “cittadini”
I mutamenti del mondo medico e il riconoscimento dell’errore
I confini della colpa
Non prendete quell’aereo!
Dibattito
Conclusioni

Apertura dei lavori

Marisa Clementoni Tretti

Alcuni di voi si saranno posti la domanda perché un biglietto d’invito così diverso. Intanto perché noi abbiamo una predilezione per i diversi e poi la vaga rassomiglianza del nostro layout con la Golconde di Magritte è da attribuirsi alla nostra idea di territorio, di luogo dove viviamo, di contenitore qualunque, di città che potrebbe anche essere la nostra. Dove cittadini qualunque, con problemi di tutti, hanno bisogno di un sostegno per camminare sul filo della quotidianità. Ed ecco allora la nostra idea di dotare gli omini anonimi di un ombrello per arrivare indenni alla fine del percorso.
E gli uomini qualunque sono i medici, gli infermieri, i malati, i familiari dei malati: tutti in equilibrio sul filo della quotidianità. E ancora, perché questa città qualunque viene tagliata di netto in due parti? Perché la divisione tra curati e curanti è giusto vi sia, purché tutto poi si ricomponga armonicamente senza preconcette contrapposizioni. Dove la fallibilità del medico è possibile ed accettabile, purché sostenuta da umanità e professionalità e dove la persona malata e danneggiata sia correttamente informata e risarcita; dove il cittadino usa sempre la sua testa e non ha il tubo catodico incorporato e dove il medico, che esprime un giudizio negativo sul comportamento di un collega, abbia anche la correttezza di scrivere le sue osservazioni, non usando lo stile di chi getta il sasso e ritira la mano.
Se il surrealismo a cui ci siamo ispirati denota la nostra predisposizione per l’immaginazione, per la ricerca di nuove vie in sanità, nei rapporti interpersonali, nella comunicazione, il nostro realismo ci porta a credere di essere mediatori del possibile. Abbiamo voluto dar vita ad un messaggio che se parte da uno spunto surreale vuol raggiungere un risultato chiaramente concreto, come concreta è stata nel tempo ed è tuttora la nostra attività.
Perché con tanta determinazione abbiamo voluto questo incontro? Perché in questi anni il nostro lavoro di ascolto di segnalazioni per disfunzioni o errori nell’ambito sanitario del nostro territorio, ha avuto una continua progressione.
Il cittadino ha preso coscienza dei suoi diritti e in alcuni casi ha deformato i diritti reali in pretese impossibili. Non stiamo a stigmatizzare a chi attribuire le colpe di questa situazione, ma dobbiamo pur dire che si è passati dal supino accoglimento di ogni evento anche macroscopicamente erroneo ad atteggiamenti di non accettazione di situazioni non modificabili da alcuno.
Se non desideriamo cercare capri espiatori purchessia vogliamo però capire. Un fattore non trascurabile è senza dubbio la scarsa comunicazione tra medico e malato, le altre cause verranno individuate da chi mi seguirà e che è dotato di strumenti e di conoscenze che noi non possiamo avere.
Non a caso, nell’ormai lontano 1996 abbiamo promosso un convegno sull’umanizzazione dell’atto medico e sulla difficoltà di comunicazione tra medici e malati. Spendere un poco più di tempo a spiegare ciò che s’intende fare, chiedere la collaborazione del malato, possiamo supporre, a ragion veduta, che si tradurrebbe nella convinzione del malato di non essere una macchina da riparare, ma un essere vivente che può andare incontro a malattie a volte guaribili, altre volte solo curabili.
Il nostro compito fin qui è stato anche quello di fare da filtro e da trait-d’union tra il medico, la struttura, il malato e i suoi familiari, facendo le veci di quella comunicazione carente che in molti casi è la madre di uno sgradevole misunderstanding che fa subito gridare all’errore anche laddove l’errore non c’è.
Per esemplificare brevemente: se per una madre è difficile accettare di aver messo al mondo un bambino malformato e quindi potrebbe essere indotta a ricercare errori accaduti durante il parto, sarà nostro compito far valutare i documenti dai nostri esperti e aiutare i genitori, se non vi fosse stato errore, ad accettare il fatto senza trovare ad ogni costo il reo che non si sarebbe presumibilmente ricercato se diverso fosse stato l’approccio del medico e se la cartella clinica non avesse dato adito a qualche dubbio.
Ma d’altro canto è nostro compito arrabbiarci insieme al cittadino quando si pretende di sostenere che un’ernia che doveva essere operata a destra lo si è fatto invece a sinistra, accampando giustificazioni che neppure il più sprovveduto dei giudici avrebbe accettato come valide.
Constatiamo anche che siamo tutti propensi a credere che l’errore in medicina si ritrovi solo in campo chirurgico, diagnostico e strumentale. Qui vogliamo verificare la fondatezza di questa opinione. Infatti non si tratta forse di errore quello di un medico che non rispetta la sensibilità e riservatezza di un malato, e legge praticamente la sua cartella clinica ad alta voce in pubblico. Non è forse errore chi rivolgendosi ad una persona di 90 anni gli dice brutalmente, “ma lei lo sa vero che ha un cancro in gola?”e si merita questa risposta “no, non lo sapevo, adesso lo so”.
E ancora: non è errore dimenticare l’esistenza delle linee guida che vengono lasciate coprirsi di polvere sulle scrivanie, come ci ha detto un illustre clinico della nostra città. Ed infine, se possiamo non accanirci perché le linee guida vengono sconsolatamente dimenticate, che cosa dire quando anche i protocolli non vengono applicati. E qui in sala ci sono due medici che sanno perfettamente a che cosa mi riferisco. Ma sarà possibile avere in questi casi periti che ci confortino con le loro relazioni? I medici legali a cui ci affidiamo sono certo in grado di darci risposte sagge, equilibrate ed inconfutabili. Ma sono tutti di questa statura?
Dobbiamo anche sottolineare come l’80% delle persone che si rivolgono a noi con la convinzione di aver subito un colpevole atto medico non trovano riscontro nella realtà. Perché la documentazione che fa fede, cioè la cartella clinica, è tale da non consentire procedimento alcuno. Ed a questi nostri associati non possiamo che offrire la nostra comprensione e una segnalazione di biasimo all’azienda dove è avvenuto il fatto per scarsa informazione o carente comunicazione. D’altro canto va detto che oltre il 95% dei casi che la nostra Commissione medica ritiene di trasmettere agli avvocati, ha successo, nel senso che il risarcimento viene riconosciuto dopo che l’errore è stato dimostrato.
Ma in pochi casi si arriverebbe ad una denuncia, se il medico informasse su come sono andate nella realtà le cose. E’ difficile ammettere i propri errori, solo le personalità di grande levatura morale e professionale lo hanno fatto scontrandosi forse anche con le Compagnie assicuratrici, ma la loro etica era ed è tale da non farsi intimorire. Le clausole vessatorie che alcune assicurazioni applicano, dovranno, secondo una buona pratica amministrativa, essere oggetto di contrattazione da parte delle aziende ospedaliere.
La qualità dei servizi non deve limitarsi a quello di cui nel nostro territorio già godiamo, e non fatichiamo ad ammettere che si tratta di buona qualità, ma dovrà includere anche l’ammissione di errore e l’immediato ricorso ad eventuali risarcimenti. Non deve sembrare un sogno perché quindici illustri professionisti di tutto il mondo, tra i quali il Prof Malliani, che con orgoglio abbiamo tra noi, hanno affrontato l’argomento che è diventato oggetto di un articolo della nuova carta professionale medica.
Questo delicatissimo punto verrà illustrato dal Prof. Malliani che ci spiegherà come si è arrivati a codificarlo e ci illustrerà se le sette fatiche di Sisifo, al confronto, gli sarebbero parse una passeggiata.
Ad un altro quesito desidero rispondere. Perché il sindaco. Perché egli nei suoi compiti istituzionali ha anche quello della tutela della salute dei cittadini che governa. In più occasioni egli ha ascoltato i problemi evidenziati dalle associazioni a tutela dei malati, ne ha capito la drammatica portata non negando ad alcuno il suo sostegno, ovviamente con i limiti a cui anche il primo cittadino deve attenersi.
Perché il medico legale. Perché il suo ruolo è determinante per essere certi se vi sia stato veramente errore e se esso sia dimostrabile Se un medico legale è troppo frettoloso, può capitare che un cittadino non ottenga il risarcimento che un altro più scrupoloso può fargli ottenere. A noi è capitato e tradotto in cifra, si trattò di un errore da un primo medico legale negato e da un secondo, certamente più attento e scrupoloso, portò ad un risarcimento di un miliardo e mezzo di vecchie lire.
Avremo modo, nel corso della serata, di parlare anche della nuova carta dei diritti del malato nella quale, non senza qualche difficoltà, siamo riusciti ad inserire, seppure in modo sfumato, l’informazione sull’intero iter del caso e quindi noi intendiamo, per intero percorso, anche l’ammissione di errore. Ma l’ argomento “Carta dei Diritti del Malato” sarà oggetto di un prossimo incontro a cui tutti i presenti, già da ora, sono invitati.
Con la collaborazione degli illustri relatori e di tutti i presenti, siano questi operatori sanitari o semplici cittadini, vorremmo poter fare dei passi avanti nei rapporti medico-malato, non vederli più l’un contro l’altro armati ma solo soggetti consapevoli che si può sbagliare, ma non si deve avere né l’arroganza di chi non sbaglia mai, né le pretese assurde di ciò che non è pretendibile.
Ed infine perché il dr. Dri. Ebbene questa deve essere proprio una sorpresa. Già il suo tema è quanto mai solleticante. Attendiamolo con la dovuta curiosità.

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L’incontro e il dialogo tra cittadini per un buon sistema di tutela della salute

Prof. Paolo Corsini
Sindaco di Brescia – Docente di Storia Moderna Università degli Studi di Parma

Mi ha creato qualche difficoltà, non lo nascondo, accostarmi all’argomento di questo convegno:
– da una parte mi è naturale identificarmi, come non medico e come rappresentante dei cittadini, nelle ragioni dei malati, nelle ragioni delle persone che anche in questo campo delicato esprimono una crescente (e matura e positiva) volontà di agire e di vedere riconosciuti i propri diritti di cittadinanza, che rifiutano un atteggiamento di soggezione nei confronti di chi è portatore di saperi specialistici, che non accettano passivamente le conseguenze delle loro decisioni e dei loro errori;
– dall’altra parte avverto ogni giorno come la possibilità, la realtà dell’errore incomba ineludibile su chiunque di noi abbia compiti di responsabilità; vivo i limiti del mio sapere e la problematicità di ogni mia decisione; avverto tutto il rischio che ogni mio sbaglio crei una divisione, una distanza tra me ed i cittadini; e per tutti questi motivi non posso che cercare di interpretare le ragioni del medico di fronte all’eventualità dell’errore. Parlo, ovviamente, del medico che sbaglia “in buona fede”, non dell’errore frutto della fretta, del pressappochismo, della disattenzione, di un’imperizia colpevole: così come non ritengo frutto maturo di un’identità civile e civica quella ricerca strumentale del tornaconto personale che caratterizza la cosiddetta “sindrome da indennizzo”
Mi ha aiutato molto a superare queste sensazioni contraddittorie e ad elaborare qualche riflessione, che spero utile al dibattito e a chi mi ascolta, il titolo che è stato assegnato alla mia relazione: quell’accento molto opportunamente posto sull’incontro ed il dialogo tra cittadini come base per la costruzione quotidiana e paziente di un buon sistema di tutela della salute: dove l’aggettivo buono mi sembra evocare la prospettiva realistica di un percorso di avvicinamento, necessariamente difficile ed incompiuto, ad un obiettivo che non può mai essere a pieno realizzato; e dove la tutela della salute, e non la cura della malattia, appare quale compito primario non solo di un sistema sanitario ma – e qui s’impone per i cittadini un ruolo di attori e non solo di destinatari – delle modalità con le quali si articola la nostra convivenza civile.
Credo ci siano almeno due ragioni forti per collocare l’incontro e il dialogo tra cittadini (e non, si badi bene, tra cittadini ed Istituzioni) Alla base della realizzazione di un buon sistema di tutela della salute: la prima fa riferimento alla necessità di recuperare e valorizzare la dimensione relazionale, interpersonale tra cittadino ammalato e l’operatore (medico e non) della salute; la seconda chiama in causa la necessità di promuovere la partecipazione dei cittadini alle scelte relative alla salute ed alla sanità.
Si parla tanto – anche nella produzione legislativa – di “umanizzazione” della medicina. Sembra paradossale dover richiamare la necessità di umanizzare, cioè di “rendere umano, civile” di “rendere compatibile con il rispetto che si deve alla persona umana ed ai suoi diritti” (come recita il vocabolario Garzanti) il rapporto tra il paziente ed il medico, tra il paziente e l’infermiere; dover sottolineare la necessità di un incontro e di un dialogo vero tra persone, e non tra un organo -o al più un organismo- con qualche problema di funzionamento ed una sorta di officina in cui anonimi ed asettici meccanici con il camice bianco provvedono – al termine di una serie di rilevazioni tecnologiche effettuate non solo con ma spesso proprio dalle macchine- ai necessari interventi di riparazione.
Eppure io penso che proprio nell’affievolirsi della dimensione personale del rapporto medico-paziente, in buona parte frutto dell’irrompere nella medicina della tecnologia e della pur necessaria super-specializzazione, vada ritrovata una delle cause di un processo di burocratizzazione della medicina stessa (e non viceversa), stia il rischio di una de-responsabilizzazione del medico e dell’operatore sanitario, alligni il seme dell’errore.
Responsabilità è, etimologicamente, “capacità di rispondere”: la sua radice greca spondein come quella latina spondere fanno riferimento all’assunzione di un obbligo; presuppone una domanda, una chiamata impellente “vocatio” ed un impegno nella risposta altrettanto solenne, totale.
Non vi può essere – in questo senso – solo una responsabilità della struttura, dell’ospedale, di una indifferenziata équipe: la responsabilità, la disposizione ad ascoltare la domanda che viene dal cittadino malato o preoccupato per la sua salute e ad assumersi l’impegno solenne alla risposta deve essere del singolo medico, del singolo infermiere, di ogni singolo membro dell’équipe, che deve essere immediatamente riconoscibile dal paziente, non per il cartellino che porta sul camice, ma per il coinvolgimento reale nella sua vicenda umana.
Io sono convinto che la valorizzazione della dimensione interpersonale, relazionale, razionale ed empatica insieme, tra il malato ed il medico, sia una strada fondamentale per ridurre gli errori in medicina:
– perché un rapporto vero obbliga ad un incontro, ad un ascolto, ad un’attenzione che forniscono al medico elementi di conoscenza più precisi, lo aiutano ad interpretare la storia personale del paziente, a decodificare il sintomo, ad inquadrarlo nella più globale situazione non solo biologica ma anche psicologica e sociale che il paziente vive.
– perché è un antidoto alla routine, quella routine che schiaccia la motivazione, mortifica la curiosità e lo stimolo alla ricerca, aumenta il rischio degli errori;
– perché aiuta lo stesso malato a capire e ad esprimere meglio se stesso, a partecipare in modo consapevole all’iter diagnostico ed al processo terapeutico, ad essere protagonista vero –e non formale- delle decisioni che lo riguardano ed a condividerne gli esiti;
– lo aiuta ad accettare meglio anche i limiti della medicina, a dimensionare in modo realistico le sue aspettative, ad evitare di rincorrere risultati miracolosi, a sfuggire alle lusinghe del “supermercato della sanità” che può, esso sì, aumentare i rischi di interventi diagnostico terapeutici non strettamente necessari e dannosi.
Voglio però aggiungere su questo tema, alcune rapide considerazioni. Mi pare che la piena valorizzazione di un rapporto tra la persona ammalata e l’operatore della sanità, e per questa via un ridimensionamento del rischio e delle conseguenze dell’errore in medicina, passi attraverso la rivisitazione di atteggiamenti e modelli culturali di riferimento in ambedue gli interlocutori, e nelle istituzioni preposte alla tutela della salute ed alla cura della malattia.
Per quanto gli operatori della sanità, e in primo luogo il medico, credo sia soprattutto necessario che egli sappia scegliere con un’utenza più matura e al tempo stesso ancora fragile un rapporto diverso: non più un rapporto paternalistico, dove il medico forte delle sue sicurezze agisce la propria autorità indiscussa ed ha il diritto/dovere di decidere, ma un rapporto paritario, da adulto ad adulto, che affronta in modo trasparente anche la complessità e l’incertezza, dove la decisione, condivisa, nasce dalla capacità di definire un compromesso tra la cura ideale e quella fattibile, di contemperare –come scrive Max Weber- l’etica dei principi e quella della responsabilità, di costruire un’alleanza terapeutica.
Per questa strada, io credo, il medico può meglio aiutare il cittadino ad un approccio più consapevole ed equilibrato alla tutela della sua salute ed alla gestione della sua malattia, orientandone la volontà di protagonismo verso la responsabilità piuttosto che verso un individualismo esasperato.
E’ un compito difficile, che pure molti medici cercano di svolgere ad onta di pressioni molteplici e contrastanti, stretti tra richieste di interventi salvifici e timori irrazionali, tra le pressioni del mercato e dell’informazione farmaceutica e la necessità di contenere i costi, tra l’ipertrofia degli adempimenti burocratici e la tendenza alla medicalizzazione di ogni aspetto del vivere.
Per quanto riguarda i cittadini ho accennato, all’inizio, come sia un fatto positivo la loro volontà di partecipare di più alle decisioni che li riguardano in un campo, come la salute, che li ha visti storicamente in un atteggiamento di delega. Ma questa volontà, espressione di una maturazione della coscienza dei diritti di cittadinanza, deve sostanziarsi di una diversa consapevolezza, deve saper superare un atteggiamento ambivalente, quell’oscillare tra una fiducia acritica nelle possibilità illimitate della medicina ed il suo rifiuto per la ricerca, nei territori dell’irrazionalità e della cialtroneria, della soluzione miracolistica, dell’elisir di lunga vita.
Si tratta, per il cittadino, di superare la convinzione che ogni problema possa trovare una risposta risolutiva in un intervento farmacologico, per scegliere la strada, più difficile, della costruzione di un rapporto maturo con la propria salute e con la propria malattia, che passa anche attraverso l’assunzione consapevole e tenace di stili di vita corretti ed è mediata dal rapporto di fiducia col proprio medico.
E’ evidente il ruolo centrale che ancora una volta il medico e gli operatori della sanità si trovano a svolgere nell’educare il cittadino e la collettività a scelte di vita più sane, ad un approccio critico alle pressioni del mercato sanitario, all’accettazione dei limiti della medicina e delle risorse in sanità, all’accettazione degli stessi limiti “naturali” della vita umana, cui appartengono anche la sofferenza, la malattia, la morte.
Ma la responsabilità non può essere solo loro: devono essere ripensati i percorsi dell’informazione e dell’educazione sanitaria, serve un diverso impegno della Scuola, s’impone una maggiore assunzione di responsabilità nella divulgazione scientifica e medica da parte degli strumenti di comunicazione di massa, che troppo spesso per “vendersi” puntano all’effetto e fanno leva sull’emotività del consumatore piuttosto che sollecitarne le capacità critiche. E soprattutto è necessario un impegno nettamente maggiore delle Istituzioni sanitarie per un’informazione ed un’educazione alla salute, capillare, equilibrata, scevra di condizionamenti.
Purtroppo al di là del lodevole impianto del Piano Sanitario nazionale varato nell’anno 2000 dal precedente governo, emerge nei fatti –sia a livello nazionale che regionale- un grave disimpegno delle Istituzioni sanitarie nell’assumere la promozione della salute e la prevenzione della malattia come obiettivi irrinunciabili della propria azione.
Non basta, permettetemi l’osservazione polemica, aver cambiato il nome, da Ministero della Sanità a Ministero della Salute, perché sia mutata l’impostazione di un sistema sanitario che, nei fatti, facendo propria in modo acritico la logica del mercato e della “compra-vendita” di prestazioni tra operatori/produttori e cittadini/acquirenti, non solo altera il rapporto medico-malato, ma incentiva il consumo di prestazioni sanitarie e finisce per premiare la malattia piuttosto della salute (è la malattia, non la salute, ad essere remunerativa…).
Perché si possa davvero migliorare la tutela della salute “l’incontro e il dialogo tra i cittadini” non può però essere declinato, al singolare, nel solo rapporto medico – paziente. E’ altrettanto necessario sia valorizzata la partecipazione dei cittadini come comunità alle scelte che riguardano la salute ed il sistema sanitario.
La richiesta di un maggior coinvolgimento dei cittadini in questo campo può infatti orientarsi ed essere orientata in due diverse direzioni:
– da una parte all’affermazione di una mentalità particolaristica ed individualistica, alla traduzione automatica dei propri bisogni in diritti da esigere, alla rivendicazione di una “libertà” personale che è spesso insofferenza per le regole, per le compatibilità, per i costi fiscali dello stato sociale;
– dall’altra, alla condivisione dei problemi delle comunità, all’assunzione cosciente delle compatibilità anche economiche, alla consapevolezza che la libertà non può essere disgiunta dalla responsabilità, che la salute è un bene comune, difficilmente divisibile.
Non ho bisogno di precisare a quale opzione vada la mia preferenza: anche perché il punto di arrivo di un’impostazione individuaiistica al problema della salute non può che essere l’abbandono di un sistema sanitario universalistico per un modello di sanità privata, mentre solo se è riconosciuta da ognuno di noi come un bene di tutti, la tutela della salute può estendersi davvero a chi ne ha più bisogno.
Abbiamo tutti ben presente –non è necessario che mi soffermi troppo- i dati forniti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità e dall’OCSE, secondo i quali i sistemi sanitari assicurativi sono tra i più costosi ed i meno efficaci in termini di grado di copertura della popolazione, di salute prodotta e di soddisfazione degli utenti, per giunta, proprio l’esempio degli Stati Uniti -il Paese che pure ha la più elevata spesa sanitaria al mondo-dimostra come non solo i poveri, ma anche le persone benestanti colpite da malattie croniche possano incontrare gravi difficoltà ad ottenere le cure necessarie.
E queste considerazioni mi sembrano particolarmente importanti proprio nell’attuale situazione di difficoltà di finanziamento della spesa sanitaria. Per carità, sono convinto che il nostro Paese non investa ancora in questo settore fondamentale tutte le risorse necessarie, che peraltro non gli mancano. Ma sarebbe sbagliato negare il problema della crescita esponenziale dei costi della sanità, legata al combinato delle dinamiche demografiche, dell’aumento quantitativo e qualitativo della domanda di salute da parte dei cittadini e dell’ancor più impetuoso aumento dell’offerta di interventi diagnostici e terapeutici sempre più avanzati e costosi: crescita cui difficilmente può corrispondere un aumento proporzionale delle risorse disponibili.
La stessa valorizzazione di un ruolo centrale del cittadino utente dei servizi e della libertà di scelta dell’individuo tende – ne ho accennato prima – a far prevalere nella coscienza collettiva l’affermazione dei diritti sulla declinazione dei doveri: rischiando di far passare in secondo piano la responsabilità del cittadino nel preservare la propria salute attraverso l’assunzione consapevole di modelli di vita orientati alla salute individuale e collettiva, e attraverso l’accettazione altrettanto consapevole dei limiti e delle compatibilità della società.
E’ un tema nodale, con profonde ricadute di natura etica e politica: la libertà di scelta dell’individuo, in una situazione di risorse limitate e di possibilità diagnostico-terapeutiche sempre più avanzate e costose, può entrare in conflitto con l’interesse comune e con la necessità di soddisfare il maggior numero di bisogni possibile, attraverso una gestione oculata delle risorse disponibili.
Ecco allora la necessità di operare delle scelte, di selezionare le prestazioni essenziali, di fissare i limiti alla gratuità dell’intervento del sistema, di individuare nuove fonti di finanziamento. Ma ecco, ancora, la necessità di una sempre più ampia partecipazione dei cittadini.
Non possono infatti essere delegate a pochi amministratori o a pochi tecnici -che tra l’altro non devono rispondere del loro operato ai diretti interessati- decisioni che incidono pesantemente sulla salute e sulla vita di ognuno di noi. Come funzionino gli ospedali, quali settori della Sanità debbano essere sviluppati, quali domande di salute che la comunità esprime debbano essere considerate prioritarie, quale peso debba essere riservato agli interventi di prevenzione, quale debba essere il raccordo tra le politiche sanitarie e quelle sociali e del territorio: non sono solo scelte che hanno un profondo impatto sul nostro presente e sul nostro futuro, che coinvolgono concretamente tutti i cittadini; sono, al tempo stesso, passaggi fondamentali nella definizione del modello di convivenza civile, dicono quale modello di società vogliamo costruire, quali ne sono i valori fondanti.
Per questo è necessario che recuperiamo la volontà di partecipare, di contare come comunità e non solo come singoli: è necessario che i cittadini, attraverso la molteplicità delle loro istanze associative, con una più stringente interlocuzione con i loro rappresentanti nelle istituzioni democratiche, tornino a discutere dei problemi della salute e della sanità, chiedano di conoscere, di capire, di decidere.
Sono anche convinto che un più costante dialogo tra cittadini, amministratori ed operatori della sanità e delle altre istituzioni -il Comune in primis- deputate alla tutela ed alla promozione della salute non solo favorisca la condivisione di obiettivi comuni, ma aiuti a colmare la distanza tra operatori ed utenti e ad individuare quei nodi strutturali ed organizzativi che limitano l’efficacia dell’azione preventiva e terapeutica ed espongono ad un aumentato rischio di errori.
Per tutti questi motivi ho accolto con estremo favore l’iniziativa di questa sera, e seguo con interesse l’attività del Movimento per i diritti del malato, che in questa sua opera di tutela delle persone deboli (e tutti noi lo siamo di fronte alla malattia) si ispira a criteri di coinvolgimento dei cittadini e degli operatori e di confronto e collaborazione con le istituzioni, piuttosto che indulgere ad atteggiamenti -magari più facili ed appaganti- di mera rivendicazione e denuncia (non a caso, mi pare, fin dal suo sorgere a Brescia ha rinunciato consapevolmente alla dizione “tribunale” per i diritti del malato).
Sono convinto che una comunità capace di esprimere realtà di partecipazione come la Vostra, come le associazioni dei consumatori, come le molteplici associazioni di familiari di persone malate, che esercitano un prezioso ruolo di tutela degli ammalati, di sensibilizzazione della comunità, di stimolo e di vigilanza nei confronti delle istituzioni, saprà vincere la sfida della difesa e dello sviluppo di un buon sistema di tutela della salute.

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I mutamenti del mondo medico: Professionalità, competenza e riconoscimento dell’errore

Prof. Alberto Malliani
Docente di Medicina Interna Università degli Studi di Milano – Coestensore della Carta Internazionale della Professionalità Medica

Grazie presidente Tretti, grazie Sindaco Corsini, grazie agli organizzatori. Io credo che il vero onore è quello di essere invitati; perché vuol dire che in qualche modo uno ha quel minimo di credibilità senza il quale sarebbe difficile vivere.
Mi porrò esattamente dove ci hanno portato le parole sia del Presidente che del Sindaco: cioè in questo strano e paradossale senso di disagio. Cominciamo in due parole ad analizzare questo paradosso: mai come ora la medicina è stata capace tecnicamente, mai come ora ha operato miracoli; mai come ora le grandi trasmissioni televisive, che sono i grandi induttori di bisogni, sono state più tronfie e non della propria nullaggine, ma nell’indurre l’ascoltatore a considerarsi una macchina della quale, di volta in volta, si fa il tagliando.
Come diceva il sindaco  la salute  non rende, è invece la malattia che rende, al  punto che probabilmente il malato terminale, cioè il malato che ha terminato di produrre, quando i circuiti sono esauriti, quando non ha più senso fare esami, quando non ha più senso l’accanimento terapeutico, quando è impossibile guarire e dove invece le cure sarebbero veramente ancora più importanti, ecco che il malato viene abbandonato. Ecco perché nel 1984 è sorto il VIDAS della cui nascita mi sono occupato.
Ma torniamo al paradosso: come è possibile che se la medicina è così trionfante, vi è un  tangibile disagio nei pazienti e nei medici? Che cosa è questo disagio, in che cosa consiste? A volte si pensa che dipenda dal rapporto medico-paziente che è diventato meccanico, frettoloso, costretto in un’agenda meccanica. Non è questa la realtà. Il medico non è diverso dal politico, dal ciclista, è nevrotico come tutti gli altri. Anche gli altri non hanno tempo: non né ha l’idraulico, non né ha neanche il prete. Il tempo è scomparso, è scomparso in uno strano spazio che lo ha ingoiato.
L’altro giorno rileggevo l’undicesimo capitolo delle Confessioni di S. Agostino. Io sono un laico, ma adoro S. Agostino e in questo capitolo egli definisce il tempo come qualcosa che non esiste, perché il tempo passato per definizione è passato, quello futuro per definizione non è ancora venuto. Il tempo presente è soltanto un passaggio tra il passato e il futuro e quindi questo tempo che definisce l’umanità, di fatto non esiste e questa è la profondità da cui dovremmo partire quando vogliamo pensare e riflettere sul medico e su tante altre cose.
Per uscire da questo labirinto in cui mi sto per mettere con le mie stesse mani, vi racconterò semplicemente la storia di questa Carta e forse nella sua storia viene fuori banalmente la sua essenza.
I colleghi americani molto concreti e molto pragmatici, così come il vostro presidente cerca di essere, si erano accorti di questo disagio e lì effettivamente, il disagio poteva dipendere da tante cose. Vediamo ad esempio che il 14% del PIL  per spesa sanitaria finisce di fatto per la metà nelle tasche delle assicurazioni. Ciononostante trenta-quaranta milioni di americani sono privi di assicurazione. Ciò sta a significare che se quelli privi di assicurazione stanno male per strada vengono portati al pronto soccorso, visitati in due minuti e quindi riportati in strada e possono tranquillamente morire dove loro più aggrada.
E’ quindi un paese in crisi dove quello che ho appena detto si contrappone al massimo della tecnologia ed anche al massimo della coscienza dei medici..  Infatti sono stati proprio i medici americani che hanno cominciato a sentire la necessità anzi il bisogno di produrre questo documento.
L’America è sempre la madre di tutti gli orrori ma è anche il luogo dove al suo interno si trova la cura e il rimedio agli orrori. Ecco quindi un altro paradosso. Sta di fatto che i medici americani volevano iniziare a scrivere una Carta, ma non avevano grandi idee in proposito. Un’idea importante l’hanno però avuta ed è stata quella di voler sentire i colleghi europei. La loro intenzione era quella di mettersi in rapporto con una realtà diversa dalla loro. I medici americani conoscono soltanto la medicina privata, quella delle assicurazioni. Pensavano quindi che collegandosi con i colleghi europei, con punti di vista diversi dai loro, potevano anche incontrare una medicina totalmente pubblica con i suoi malanni e un altro tipo di medicina privata ambientata in un sistema diverso. Così gli apici della Medicina Interna americana hanno contattato la Federazione Europea di Medicina interna dalla quale sono stato interpellato ed ho quindi avuto la fortuna  di partecipare a questo gruppo di lavoro.
E’ bene spiegare che negli USA il vero potere accademico è in mano alla Medicina Interna, nel senso che anche il più grande specialista ha come sogno quello di essere il capo cherman di un Dipartimento di medicina interna.  Anche il grande cardiologo alla fine, se è veramente bravo, diventa cherman di un Dipartimento di Medicina Interna.
La storia del mio incontro con questo progetto è per certi versi molto complessa  ma anche molto semplice. Abbiamo avuto una serie di incontri di tre giorni ciascuno, in giro per il mondo. Tutte le volte erano giornate di quattordici ore di lavoro e all’inizio non avevamo la più pallida idea di cosa scrivere, perché avevamo diversità di esperienze, di razze, di religioni, di linguaggio e così abbiamo cominciato ad “ascoltarci”. Ricordo che la fase più bella è stata quella dell’ascolto reciproco. E più ci ascoltavamo e più trovavamo che erano tantissime le differenze e sentivamo il bisogno, come direbbe Bertrand Russel, di ricordarci della nostra umanità e dimenticare il resto. Tirar fuori un comune denominatore e dire se la sfida che avevamo iniziato ci consentiva di estrarre ciò che  rendeva simile il mestiere del medico in tutte le parti del mondo. Questo ci consentiva l’ambizione di stendere un Documento che fosse poi la base di una discussione permanente nel mondo occidentale e forse anche un po’ più in là.
Questa Carta in Italia è stata da me distribuita a tutti medici. Ho la promessa del Ministro della salute che verrà pubblicata sul Bollettino Blu che è quello che raggiunge tutti i medici. Ugualmente diffusa è la distribuzione in America ed in molti paesi europei. Il sogno è di farla avere anche agli studenti.
Nulla è importante in questo documento importante, ma importante è l’atto creativo è l’arte della “Fuga di Bach”, è la genialità umana. Questa è un’umile fotografia che cerca di essere onesta.
Questo documento è soltanto un atto di onestà, un atto di non conflitto di interessi, è un tentativo di trasparenza etica  e per etica non intendo “la morale”, intendo l’Ethos, intendo quella trattativa permanente per cui il benessere dei più, deve prevalere sul benessere dei pochi.
Quindi ogni epoca ha la sua etica, ed è giusto che così sia. Non vi è nulla di Kantiano, nulla di immutabile in questa Carta. Essa è in qualche modo, un invito a discutere di questi problemi e non pretende di essere altro. E se è stata pubblicata contemporaneamente sul Medical Journal e su Lancet, avendo come premesse dei meravigliosi editoriali: uno di Richard Horton, che è un punto di riferimento nel mondo medico, e l’altro di Djar Sars, stava a significare che questi due editori hanno creduta necessaria la loro sottolineatura. Infatti questa Carta era scarna al punto tale da sembrare ingenua, se non banale. Noi l’abbiamo voluta “banale” perché fosse comprensibile per il malato tanto quanto per il medico o per lo studente che ancora deve cominciare a studiare la medicina.
Si è voluto un linguaggio che non avesse una parola complicata, dove non ci fosse una parola che non fosse d’immediata comprensione.
Vediamo allora come si articola questa Carta. Vi è un preambolo dove si racconta un po’ della nostra crisi, quindi si individuano i tre principi fondamentali e le dieci raccomandazioni. Ecco, qui io avrei voluto che fossero di numero diverso: per esempio nove o undici, mi sembrava infatti un po’ ridicolo quel dieci, ma dieci sono rimaste. Non illustrerò tutta la Carta perché so che ne avete avuta una copia e comunque io ne lascerò altre, mi limiterò invece a farvi seguire l’architettura della Carta. I principi, come ho detto, sono tre:

1. centralità del paziente (è questo un principio ippocratico).

Il paziente è il centro dell’incontro medico-paziente. Il medico deve porre il malato ed i suoi bisogni al di sopra dei propri bisogni di medico. E’ questa quindi una Carta di “doveri”, in primo luogo perché viene scritta da medici. Voi giustamente parlate di diritti del paziente, è giusto che noi si parli di doveri dei medici e quindi su questo principio non vi è nulla di nuovo rispetto ad Ippocrate. E col nostro lavoro non abbiamo compiuto nulla di irriverente nei suoi confronti anche se si sono dovute modificare alcune delle sue affermazioni e modificare il panorama che ci aveva descritto.

1. autonomia dei pazienti.

Questo secondo principio non ha più nulla a che fare con Ippocrate che era un medico paternalista e che non poteva immaginare che in un mondo lontano da lui, il paziente avrebbe avuto diritto ad avere tutte le informazioni per poter scegliere, per condividere o meno certe scelte, per non far più nulla alla cieca, per non essere utilizzato come un’anima morta, o perlomeno come un corpo morto con ancora qualcosa di vitale addosso. Quindi ecco che l’autonomia del paziente è sembrato un punto estremamente importante.

1. la giustizia sociale.

Questo punto è quello che vi dovrebbe dare grande stupore e in fondo ammirazione per il gruppo che lo ha scritto. Non sto parlando di me ma della componente americana. E quindi desidero leggervi questo punto:  “ la professione medica è tenuta a promuovere la giustizia all’interno del sistema sanitario, ivi inclusa l’equa distribuzione delle risorse disponibili. I medici dovrebbero impegnarsi attivamente affinché in ambito sanitario venga eliminata qualsiasi forma di discriminazione, sia essa basata su razza, condizione socioeconomica, religione o qualsiasi altra categoria sociale”.
Per noi italiani non occorre coraggio, perché possiamo dire che nella nostra storia italiana ciò già accade. Io tuttora sto spendendo una fortuna per un povero immigrato marocchino,  senza permesso di soggiorno, diabetico, con una gamba sola, mezzo fratturato,  che se mando via, chissà dove lo sbattono. Non riesco neppure a mandarlo in lungo degenza, perché è senza permesso di soggiorno e così, come dicevo  sto spendendo una fortuna per l’ospedale anzi, ahimé, per l’azienda.
Apro una parentesi. Quando l’ospedale è diventato azienda io ho lacrimato come un pulcino perché mi sono reso conto che  avrei dovuto lavorare non per l’ospedale ma per l’azienda. Io avevo sempre creduto che i medici per definizione fossero al servizio dello Stato come i magistrati o i pompieri. Per me la libera professione è addirittura incostituzionale, immaginate quanto possa capire il concetto di azienda. Questo passaggio io l’ho vissuto nella pratica.
I medici americani, che io conosco uno per uno, hanno firmato il terzo principio della giustizia sociale andando in collisione frontale col proprio governo per come   questo intende spendere le risorse per la sanità. Insomma in America il discorso è molto semplice: procurarsi il denaro per farsi l’assicurazione. Se un americano non ha la copertura assicurativa non viene curato.
Chiunque in America abbia provato a cambiare le cose, non c’è riuscito. Non solo, ma il sistema è talmente drammatico che quando una persona ha la sfortuna di avere novant’anni  (altri penserebbero che è una fortuna) una singola assicurazione non basta, perché nel momento in cui finisce un’assicurazione, prima di poterla rinnovare, c’è un lungo periodo in cui bisogna sottoporsi ad esami e a visite e via dicendo e allora bisogna avere già una seconda assicurazione che possa coprire le spese. E’ un po’ come con le tegole che devono essere sempre più d’una, altrimenti ti bagni la testa. E l’ombrello non è quello di Magritte e qui non vi è nulla di surreale, vi è invece l’iper realismo del denaro: il business uber alles.
Ma i medici americani hanno firmato il principio della giustizia sociale!
Ora non intendo leggervi tutti e dieci i principi, entrerò solo in due o tre.

Impegno alla competenza professionale.

Oggigiorno il medico deve impegnarsi anche sulla competenza professionale perché voi tutti sapete che quello che un medico studia a scuola etc. etc., quando va proprio bene bene, durerà cinque, dieci anni, ma se il medico non studia in permanenza non è un buon medico.

Impegno all’onestà verso i pazienti.

Non intendo neanche spiegarvelo perché quello che è ovvio è ovvio.

Impegno alla riservatezza riguardo al paziente.

E’ un punto importantissimo e sarà la sfida del futuro. Immaginate che la storia reale del paziente sia in mano al suo medico di medicina generale e  quando il paziente entra in ospedale altri documenti vengono aggiunti, altri consulenti vengono a conoscenza della storia e aggiungono altri documenti e così via all’infinito. Sarà bellissimo, non occorrerà più fare una serie di esami perché si ritroveranno nel corposo documento e basterà un numeretto per sapere tutto di quella persona e qualunque appostazione sul territorio nazionale potrà entrare in quella banca d’informazioni. Bene, ma come faremo ad essere sicuri che entrando in quella banca dati le persone non verranno selezionate per poter lavorare ad esempio in una multinazionale? Che non potranno accedere ad un qualunque lavoro  i portatori di epatite C, o di HIV o chi ha un padre o una madre con schizofrenia etc. etc. Chi potrà mai essere garantito che le informazioni sulla sua salute non siano oggetto di un uso non consentito?  Chi potrà garantire la vera riservatezza?   Non ci sarà mai una chiave di chiusura di assoluta sicurezza Se c’è chi può entrare negli algoritmi del Pentagono entrare in una banca dati dei cittadini sarà veramente un gioco.   Questo è uno dei grandi paradossi: per aiutare l’uomo si finisce per distruggerlo. Ma altri sono i paradossi già arrivati, pensiamo al fuoco di Prometeo e siamo arrivati al fuoco di Hiroshima. Comunque noi medici non possiamo che volere la riservatezza con tutte le nostre forze.

Impegno a mantenere un rapporto corretto con i pazienti.

Non c’è da spiegarlo.

Impegno a migliorare la qualità delle cure.

Non c’è da spiegarlo.

Impegno a migliorare l’accesso alle cure.

Non c’è da spiegarlo

Impegno a una distribuzione equa delle risorse limitate.

Lo diceva anche il Sindaco. Le risorse sono dimostrate limitate. E’ lì dove  la sapienza diventa l’assenza di spreco. D’altra parte non vi spaventate tanto perché vi posso assicurare che, in tanti anni di Medicina, io lo spreco l’ho visto coincidere più con la carenza di cultura che con la cultura. E’ infatti la carenza di cultura che crea lo spreco. Sono le trasmissioni televisive che creano lo spreco. Quelli sono i veri pericoli della salute che non hanno nulla a che fare con la vera prevenzione primaria.

Impegno alla conoscenza scientifica.

Non c’è da spiegarlo.

Bene, Adesso vi sono invece due impegni che vi voglio leggere, perché questi  hanno veramente a che fare col mondo nuovo  Sono pochissimo modesto e vi dico che  sono particolarmente fiero di aver scritto dalla prima all’ultima parola  e per pubblicarlo ho dovuto minacciare perlomeno tre volte le dimissioni dal gruppo e capirete poi il perché.

Impegno a conservare la fiducia affrontando conflitti d’interesse.

I medici professionisti e le organizzazioni di cui fanno parte hanno molte occasioni nelle quali compromettere le loro responsabilità professionali perseguendo guadagni privati o vantaggi personali. Questo accade soprattutto quando il medico o l’organizzazione stabiliscono rapporti di lavoro con aziende, quali i produttori di apparecchiature mediche, le compagnie di assicurazione e le aziende farmaceutiche. I medici hanno l’obbligo di riconoscere, rendere pubblici ed affrontare i conflitti d’interesse che si presentano nello svolgimento dei loro compiti ed attività professionali. Dovrebbero essere resi noti i rapporti tra l’industria e gli opinion leader, specialmente quando questi ultimi determinano i criteri per la conduzione e l’interpretazione dei trial clinici, per la stesura di editoriali o linee guida terapeutiche, o ricoprono il ruolo di direttori di riviste scientifiche.
Questo è pesante come il piombo. Partiamo dalla situazione denunciata: le linee guida sono lasciate a coprirsi di polvere. Il problema è che a volte è bene che sian lasciate  a far polvere perché molte volte le linee guida non sono neutrali. A volte chi scrive le linee guida è in palese conflitto d’interesse non dichiarato. Ed è così che si arriva alla eccessiva medicalizzazione. E’ così che si propone di curare la pressione arteriosa fino al di sotto di 120 su 80. Curando gli altri come un medico non curerebbe se stesso. E’ così che in fin dei conti si propone di mettere le statine nell’acqua potabile. Sto aspettando che questo si realizzi. Intanto potrebbe servire per annullare il colesterolo, poi potrebbe servire a qualcosa per curare l’Alzheimer o qualche altra cosa che si potrebbe inventare.
Il problema è che chi ha scritto le linee guida, il più delle volte era in palese conflitto d’interesse, ma nessuno gli ha chiesto di chiarire la sua posizione.
Intanto bisogna pretendere che chi scrive le linee guida, dichiari se è o non è in conflitto d’interesse.
Io poi propongo da una vita che chiunque scriva le linee guida si sottoponga ad una revisione da parte dei medici di medicina generale, cioè da parte di coloro che queste linee guida devono applicare, altrimenti l’applicazione delle linee guida è un non senso.
La medicalizzazione applicata in questo modo sta spingendo oltre il 50% dei pazienti nelle medicine alternative.
Sottolineo nuovamente che, intanto, i conflitti d’interesse vanno dichiarati; immaginate poi a chi, avendo conflitto d’interesse, ha in mano le riviste internazionali. Quali disastri scientifici può provocare, selezionando un lavoro piuttosto che un altro. Enfatizzando, possiamo dire che si può tagliare le gambe alla scienza utile dando spazio a quella inutile.
Il conflitto d’interesse è un argomento molto pesante per i medici americani.
Facciamo l’esempio della cardiologia interventistica. Un buon stent si mette nelle coronarie. Se un cardiologo è particolarmente bravo, l’industria gli fornisce uno stent e gli dice: “questo è l’ultimo stent, provalo” Il cardiologo lo prova e lo trova buonissimo, anzi ottimo. Detto questo compra immediatamente delle azioni di quell’industria, perché è così che si vive in America. Ma se poi, con l’andar del tempo, uscisse un altro sent migliore come si farà a credere che lo stesso cardiologo lo userà e cambierà quello del quale ha le azioni? Così si deve informare il paziente. “Guardi signora, io le metterei questo stent, però sappia che io ho delle azioni dell’industria che lo fabbrica. Lei si procuri le informazioni adeguate. Poi, se lo vorrà, io le metterò lo stent che lei preferisce.”
Voglio dire che il conflitto d’interessi non è una vergogna, è una condizione. Ci si può trovare in conflitto d’interessi, però bisogna essere trasparenti, in questo modo si evitano guai spaventosi.

Impegno nei confronti delle responsabilità professionali.

Ho lasciato in ultimo questo punto che è il tema della conferenza.
Come membri di una professione ci si aspetta che i medici collaborino per massimizzare la cura dei pazienti, che medico e paziente si rispettino reciprocamente e partecipino al processo di autoregolamentazione che implica, tra l’altro, trovare rimedi e adottare azioni disciplinari nei confronti di quei membri che non abbiano aderito agli standard professionali. Voglio dire che una scienza che non ha il coraggio di dichiarare i propri errori, non è una scienza ed è da cancellare dal pianeta.. Quindi tanto maggiori sono le nostre responsabilità e tanto maggiore deve essere la nostra apertura a vedere i nostri errori. Su questo non c’è il minimo dubbio.  Ciò che occorre è individuare le vere responsabilità: la medicina non è onnipotente. Un medico può non fare una diagnosi perché molte volte il fare la diagnosi non è neanche importante. Infatti  la diagnosi è di per sé una malattia come diceva Karl Kraub.
Però se l’ernia era a sinistra, va tolta a sinistra e non a destra. Così come il vero errore appunto è anche quello di non aver informato un parente, di non aver dato l’autonomia al paziente, di aver in sostanza contravvenuto ai principi prima enunciati.
E finisco con questo principio: la professione dovrebbe stilare le procedure da seguire per stabilire gli standard e diffonderli nella comunità medica di oggi e di domani.
I medici in quanto individui e membri di una collettività, hanno il dovere di partecipare attivamente a questo processo, rendendosi disponibili alla valutazione interna e accettando la supervisione esterna dei vari aspetti.
Io ho orrore di quei medici che rifiutano controlli esterni. Noi dobbiamo pretendere questi controlli.
Un breve riferimento alle leggi ghigliottina. L’ex ministro Bindi, che pure qualcosa di buono ha fatto, ci ha fatti morire. I medici di medicina generale a 65 anni tutti a casa, gli universitari a 68, tutti a casa. E poi ci troviamo il clinico che per quattro anni si trova senza letti!
Questi ed altri sono stati gli errori sia sul piano del rispetto umano che quello delle competenze. Lo stesso ministro che mandava noi a casa si prodigava per la rielezione di Scalfaro! Non può essere che i politici siano eterni ed i medici imbecilli. Ci vuole una regola per tutti. E si veda se un medico a 65 anni sa fare bene la sua professione. Io ho curato Musatti fino a 92 anni, Fortini fino a 76 e vi posso assicurare che queste persone ben oltre i 70 anni avevano da fare più di chiunque altro e lo facevano bene, anzi benissimo.
Allora queste sono le cose che noi dobbiamo pretendere: i controlli di qualità, i controlli di cultura, i controlli etici. Non praticare le ghigliottine statali per cui si è potuto buttar via un’intera generazione di validi medici.   Questo ha tolto un buon milione di voti al centro-sinistra. Rivedano i conti.
Detto questo ritorniamo agli errori: sbaglia il politico quando è arrogante, sbaglia il medico quando è arrogante.
Questa nostra Carta è una “Carta dell’anti arroganza”. Il medico è un beniamino di vita, non deve conoscere neppure l’ombra dell’arroganza, perché da errori non riconosciuti nascono altri errori.
D’altra parte, ricordatevi, il vero dramma attuale è l’azienda.
L’azienda pubblica è una favola. Tutto ciò che conta sono i costi, se ottiene dei margini di guadagno non vengono pagati, ma allora che azienda è? non è un’azienda.
Vi è inoltre un’altra strategia lombarda che è quella di fare in modo che il pubblico non sia più competitivo (e di questo passo lo sarà in brevissimo tempo) a favore del privato che sta raggiungendo una tale competenza tecnologica da non poter essere raggiunto dal pubblico che sta diventando sempre più scadente.
In questo, visto che ogni tanto c’era chi si è allargato politicamente, ho detto anch’io quello che penso e mi sono allargato.
Quindi diciamo: etica e cuore per aria, in mezzo agli aquiloni. Però ripeto, senza errori di tracotanza, né da parte politica, né da parte dei medici.

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I confini dell’errore: responsabilità medica e colpa

Prof. Francesco De Ferrari
Direttore Cattedra di Medicina Legale Università degli Studi di Brescia

Cercherò di essere abbastanza sintetico, anche perché gli interventi che mi hanno preceduto hanno stimolato le punzecchiature, come ha detto la Signora Tretti.
Prima di entrare nei termini del tema che mi è stato assegnato, cioè “i confini dell’errore: responsabilità medica e colpa” vorrei riallacciarmi a quello che è stato detto prima e per tranquillizzare sia gli addetti ai lavori che i non addetti desidero precisare che Brescia è un’isola felice dal punto di vista del contenzioso legato all’errore, a confronto sia con il resto della nostra regione, sia con Trentino, Veneto ed Emilia.
Il contenzioso a Brescia è infatti davvero modesto rispetto ad altre aree geografiche. Io non so se questo dipenda dal fatto che i medici a Brescia sono più bravi, ma mediamente e statisticamente non credo si possa fare questa affermazione. Non credo neppure che i cittadini bresciani siano più acquiescenti o meno rivendicativi del rispetto dei loro diritti in confronto ai cittadini di altre provincie
Credo che, ed è stato già detto prima dal Sindaco, non sia casuale che a Brescia si sia optato per il “Movimento per i diritti del malato” e non per un “Tribunale”. Credo anche che la affermazione della Signora Tretti in precedenza non debba essere scorporata da quanto lei stessa ha detto, perché potrebbe far pensare: “dove siamo finiti a Brescia, il 95% dei casi passati all’Ufficio legale ha avuto successo”. Io credo che ciò non dipenda dal fatto che nel 95% dei casi ci sia chiaramente una colpa, ma perché evidentemente viene preliminariamente effettuato un filtro tale per cui all’ufficio legale pervengono i casi con una concreta possibilità di ottenere un giusto risarcimento.
Altrove, ad esempio in alcune province del Veneto, dove mi porta ad operare la mia attività di medico legale, così non è.
Il tribunale per i diritti del malato porta in contenzioso ogni richiesta. Allora è evidente che a quei livelli non si avrà il 95% di successi ma si avrà come risultato finale un 95% di probabili insuccessi.
Questo però aumenta la conflittualità, aumenta il contenzioso, aumenta nell’opinione pubblica (che non conosce poi il risultato finale) la sensazione che l’attività medica sia ormai senza controllo per la numerosità degli errori che vengono commessi.
In realtà siamo di fronte ad una numerosità di false indicazioni di errore, o false rivendicazioni per errori che non sono mai stati compiuti.
E’ stata fatta un’altra affermazione dalla Signora Tretti che mi consente di riallacciarmi al concetto di valutazione dell’errore. Faccio un esempio concreto: il sottoscritto e i suoi collaboratori, nel momento in cui si presenta al nostro ambulatorio agli Spedali Civili un qualsiasi cittadino per chiedere un parere per ipotesi di colpa professionale, chiediamo che, prima di noi si esprima lo specialista che individui se vi è stato errore tecnico, e questo perché nessuno è onnisciente.
La Signora Tretti prima ha detto che lo sport nazionale dei medici è quello di tirare il sasso e ritirare la mano. Io credo che lo sport nazionale del clinico in genere sia quello di dire a voce che sono stati fatti errori orrendi, ma nessuno poi mette per iscritto se, dove e quando è stato commesso l’errore. Questo è un altro elemento che ingenera nell’opinione pubblica, nei non addetti ai lavori, la sensazione non solo che siano stati commessi degli errori, ma detto volgarmente che, siccome cane non mangia cane, l’omertà tra i medici sia peggio di quella tra i mafiosi. Così nel comune sentire alligna il pensiero che non si riesca mai ad enucleare dove e se si sia commesso errore.
Io passo, mediamente, per un colpevolista e non credo che ciò risponda al vero. In realtà non cerco di nascondere l’errore, solamente però dove l’errore è dimostrato.
Se un cittadino ci chiede una consulenza nella quale si sostenga l’errore del medico, noi la redigiamo soltanto se vi è una ragionevole probabilità, almeno del 60%, di ottenere il risultato positivo. Se le probabilità sono inferiori non se ne fa nulla, perché in caso contrario si contribuisce a tirare il sasso e ritirare la mano.
Entrando nel tema proposto, io dovrei parlare dei confini dell’errore. E’ praticamente impossibile delimitare l’errore con precisione e certezza nell’esercizio dell’attività medica.
E’ difficile delimitare il confine tra errore colpevole ed errore non colpevole. Ma facciamo un passo indietro: per parlare di errore di solito si parte da un evento sfavorevole per il paziente. Purtroppo il progresso tecnico-scientifico ha fatto passi da gigante; i mass media hanno fatto passi ancora più importanti nell’informazione divulgativa: si è arrivati così ad una attesa smisurata di esito favorevole da parte del paziente.
E’ stato detto anche prima che è sempre più difficile l’accettazione della possibilità che il medico non sia infallibile. Ma è anche vero che la responsabilità del medico, come è stato detto dal Sindaco e dal professor Malliani, è da attribuirsi in gran parte ad un inadeguato rapporto medico-paziente. Ciascuno di noi ha la sua casistica personale e quella dei colleghi dove, anche a fronte di un errore, se commesso in buona fede, se giustificato e chiarito al malato, se questi ha l’impressione di essere stato trattato come un essere umano e non come un animale da esperimento, il più delle volte non si reca dal Movimento per i diritti del malato e neanche dall’avvocato, ma comprende.
Il più delle volte la conflittualità nasce non già dall’esistenza di un errore, ma dal modo in cui il paziente si sente trattato dal medico. La casistica di qualsiasi medico legale può testimoniare che più del 70 – 80% della conflittualità nasce da frasi tipo: “ avrà anche fatto tutto quello che poteva dal punto di vista tecnico, ma non mi ha trattato correttamente dal punto di vista umano. Non mi ha adeguatamente informato e quindi io voglio avere giustizia”. La giustizia di cui si parla è dovuta al fatto di non essere stato informato, non è quindi la richiesta di risarcimento per un errore tecnico, ma è giustizia in relazione ad un errore etico, comportamentale.
Dobbiamo anche riflettere sul fatto che un evento sfavorevole non costituisce automaticamente un errore.
C’è comunque, purtroppo, una serie di eventi sfavorevoli che sono ineludibili ed anche ineluttabili. Malgrado una sempre più attenta ed efficiente assistenza anche sotto il profilo umano l’errore può capitare e se così non fosse potremmo dire di aver raggiunto l’immortalità. E’ sempre difficile accettare ad esempio la morte di un familiare, se ciò è umanamente comprensibile non può esserlo nella corretta valutazione dell’evento.
Possono anche verificarsi una serie di eventi sfavorevoli che possono essere considerati le conseguenze di errori senza colpa (intesa in senso giuridico, medico-legale), senza cioè che sia stato posto in essere un comportamento inadeguato, secondo i dettami dell’articolo 43 del Codice penale. E’ evidente che sono situazioni rare nelle quali l’esistenza di un errore o di una possibilità di un errore (definiti pseudo errori) sono legati ad una valutazione ex post, nella quale ci si rende anche conto che era una situazione difficilmente prevedibile ex ante. E’ troppo facile “sparare sul pianista” dicendo a posteriori: “eh bè però ci si poteva anche pensare”. Probabilmente nel 99,9% dei casi, ex ante, nessuno riusciva a pensarci perché era una situazione del tutto imprevedibile. Queste situazioni sono rare, ma esistono.
Poi invece passiamo agli errori veri, nei quali si ravvisa una responsabilità colposa, nel senso classico del termine, ex articolo 43 del Codice penale il quale prevede che il reato è colposo quando conseguenza di imperizia, imprudenza, negligenza o inosservanza di ordini, regolamenti, leggi, discipline. Anche in questa fattispecie possiamo distinguere tre situazioni.
La prima evenienza è riconducibile ad una situazione inadeguata, ma nelle quali possiamo ragionevolmente escludere una responsabilità personale del medico.
Faccio un esempio di un caso peritale recentissimo nel quale veniva contestata la responsabilità del medico di reparto: si sosteneva che nel momento in cui veniva ricoverato un infartuato, per il quale, peraltro, già il medico del 118 ed il medico del Pronto soccorso avevano posto in essere le misure terapeutiche di pronto intervento, il medico non era presente in reparto e che lo stesso medico è giunto in reparto 20′ dopo l’arrivo del paziente. Cinque minuti dopo l’arrivo del medico il malato moriva per fibrillazione ventricolare.
Il magistrato ha opportunamente posto il quesito di quale fosse l’organizzazione strutturale del reparto: si è appurato che l’organizzazione dell’ospedale, con padiglioni staccati, prevedeva un unico medico di guardia: quando il medico è stato chiamato stava curando un paziente degente in un altro padiglione. Il tragitto da un padiglione ad un altro prevede dieci minuti e perciò i venti minuti tra la chiamata e la presa in consegna del malato erano giustificabili.
La seconda situazione è quella delle attività polidisciplinari in cui la decisione è condivisa da tutti; è difficile evidenziare la responsabilità individuale del singolo componente dell’équipe.
La terza situazione, più semplice, è quella della cosiddetta responsabilità oggettiva.
Sappiamo tutti, la Signora Tretti lo sa forse meglio di me, provandolo sul campo, che se si inizia un’azione civile per risarcimento, prima che si concludano i tre gradi di giudizio si deve attendere anche vent’anni. Allora evidentemente uno si scoraggia, perché ammesso che alla fine venga risarcito, ha anticipato per tutti quegli anni le spese legali, le spese del consulente e così via.
Certo, ed è già stato detto da chi ha parlato prima di me, l’altro aspetto della medaglia, devo dire per fortuna sempre meno frequente, è il tentativo da parte dei medici di nascondere l’errore.
Però facciamo attenzione. Il Professor Malliani ha fatto riferimento alla necessità ed alla serietà scientifica di evidenziare, far affiorare ed ammettere i propri errori. Purtroppo però questo è facile accademicamente, nei congressi, nelle riunioni scientifiche, parlandone qui con voi. Da vent’anni, cioè da quando sono arrivato a Brescia, sostengo che il medico legale deve prevenire, non solo difendere. Purtroppo i colleghi clinici, ed alcuni presenti possono testimoniarlo, spesso tendono a vedere il medico legale come il nemico che cerca di evidenziare gli errori. Quando un clinico dice: “è vero, ho sbagliato” lo sollecito a parlarne con il paziente dicendogli come stanno le cose e rassicurandolo che si sarebbe fatto il possibile per riparare l’errore commesso: molto spesso in tal modo il contenzioso può essere evitato.
Occorre però ricordare che non basta aver commesso un errore per risponderne e ciò sia dal punto di vista del Codice penale che da quello del Codice civile. Infatti è necessario che il danno per il paziente sia conseguenza dell’errore.
Inoltre bisogna tener conto dell’atteggiamento “pendolare”, per non usare altre espressioni, della magistratura. Siamo passati dalla sentenza del 30% della Cassazione, la quale in sostanza diceva che era sufficiente una probabilità del 30% di riuscita per condannare chi non aveva posto in essere un provvedimento terapeutico, alle sentenze più recenti che dicono che si può condannare soltanto in presenza di “ragionevole certezza”.
Ragionevole certezza è un concetto classico della medicina legale. Trent’anni fa il mio maestro mi insegnava a scrivere: “un grado di probabilità così elevato, da poter essere equiparabile ad una ragionevole certezza”. Anche se occorrono dei limiti per utilizzare il termine “certezza” sia in medicina che in biologia. Nulla è certo, soprattutto, in termini di “colpa omissiva.
Un ultimo accenno alle valutazioni del Prof. Malliani su alcuni aspetti critici relativamente alle linee guida. Io ragiono da medico legale di una certa generazione. Più moderno della generazione che mi ha preceduto e meno di quella che mi seguirà. Credo che il riferimento critico alle linee guida sia indispensabile a tutela del paziente ed anche del medico. E mi spiego: ho detto riferimento critico, cioè le linee guida non devono costituire un protocollo da applicare acriticamente in tutti i casi; se le interpretiamo come un filo conduttore, un minimo comun denominatore a cui è bene ispirarsi, allontanandosene solo motivatamente nel singolo caso, allora applichiamo un concetto classico della medicina legale e cioè la criteriologia della valutazione della colpa professionale. In sostanza intendo dire che il medico è in errore quando si discosta dalla operatività media dei soggetti di pari esperienza, preparazione ed addestramento professionale.
Una applicazione critica ed intelligente di una linea guida da parte sia dei medici legali ma ancor più dei clinici, si risolve in una difesa del paziente oltre ad essere una difesa per il medico rispetto all’arbitrio di certi periti.

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Non prendete quell’aereo! La comunicazione scientifica: allarmismi ed educazione alla salute

Dr. Pietro Dri
Direttore della Rivista scientifica Tempo Medico – Agenzia di Giornalismo Scientifico Zadig

Ringrazio di essere stato invitato e ringrazio voi tutti di essere intervenuti ad ascoltare.
Il comune cittadino, il lettore di un quotidiano o di un periodico, l’ascoltatore di un radio- o telegiornale, è quasi sempre del tutto all’oscuro di come si viene a formare una notizia sulla salute, del perché ne viene data una o un’altra, di quali siano le pressioni e le influenze che portano alla fine a far parlare di un farmaco.
Quello che propongo in questa sede è una lente di ingrandimento, un esempio per far capire quanto intricato sia il quadro entro il quale si muove il giornalista scientifico e quanto siano attendibili le notizie che vengono fornite. Questa lente si chiama alosetron, un farmaco non in commercio in Europa, ma solo negli Stati Uniti, usato per la cura di alcune forme di colon irritabile.
Nel mese di settembre 2002 sul British Medical Journal viene pubbicato un articolo su questo farmaco, nel quale viene posto il dubbio se la sua storia sia una vittoria per i diritti dei pazienti oppure al contrario una mera diatriba burocratica. Quanto viene riportato in questo intervento tra virgolette fa riferimento proprio a questo articolo (R. Moynihan. Alosetron: a case study in regulatory capture, or a victory for patients’ rights? BMJ 14 settembre 2002; 325: 592).
“La sindrome del colon irritabile non è una malattia che metta a rischio la vita e quindi non è una malattia maligna. E’ però una malattia che crea delle frustrazioni e grave stress a chi ne soffre, perché provoca dolori addominali, stitichezza e diarrea”, insomma una serie di sintomi che modificano la qualità della vita. Inoltre crea “frustrazione nel medico” non essendoci al momento terapie efficaci.

Una lettura dicotomica
Si tratta di un disturbo frequente? Qui iniziano le dicotomie tra quanto sostiene l’azienda farmaceutica che ha messo a punto il farmaco e le istituzioni: l’azienda farmaceutica sostiene che “la malattia, che colpisce il 20% della popolazione, ha un carico pesante per il singolo paziente”. La FDA, l’ente regolatorio americano per l’immissione in commercio dei farmaci, sostiene che “la malattia colpisce il 5% della popolazione e meno del 5% di questi malati sono casi gravi”. Fin dall’inizio, dunque, emerge la possibilità, su un dato di fatto, quale dovrebbe essere la prevalenza di una malattia, di pareri del tutto discordi, che influenzeranno l’opinione del lettore: un conto è parlargli di una malattia che potrebbe colpire 1 su 20 dei suoi conoscenti (5%) un altro sostenere che è assai diffusa (1 su 5, 20%) e quindi può interessare la sua stessa famiglia.
Ma veniamo alla storia paradigmatica di questo farmaco. La documentazione sull’alosetron viene presentata all’FDA per l’immissione in commercio nel 1999 e in effetti il 9 febbraio 2000 il farmaco viene commercializzato con l’indicazione di uso “sindrome del colon irritabile nelle donne con diarrea”.
La notizia, pubblicata dai giornali, genera un grande entusiasmo iniziale, il farmaco è definito dall’azienda farmaceutica come “altamente efficace”, e alcuni pazienti parlano addirittura di “medicina miracolosa”. Nel sito del British Medical Journal alcuni malati intervengono sostenendo che il farmaco “ha cambiato loro la vita”, quindi se ne deduce che sia senza alcun dubbio utile.
Su che cosa si basano queste affermazioni? Sullo studio fatto dall’azienda farmaceutica che ha analizzato qualche centinaio di donne affette dalla malattia. Ma come si vede dai due grafici (Figure 1 e 2), che partono dai medesimi risultati, l’efficacia del farmaco può apparire ben diversa usando scale di riferimento diverse.

Figura 1 – grafico Azienda

Figura 2 – grafico del Public citizien’s health research group

Ammesso che il farmaco sia efficace, nei primi mesi di commercializzazione emergono però gravi effetti collaterali, a tal punto che viene riunito dall’FDA un Comitato ad hoc che conclude con un verdetto tranquillizzante: il farmaco può rimanere in commercio.
Quali sono questi effetti collaterali? “Quasi un terzo dei malati trattati soffre di stitichezza, ma gli effetti collaterali gravi comprendono perforazione dell’intestino e morte”. Che cosa dice l’azienda farmaceutica a sua difesa? Nel novembre 1999, prima dell’immissione in commercio, l’azienda in base ai dati in suo possesso dichiarava: “non esistono prove di una relazione causale tra lo sviluppo di colite ischemica e la terapia con alosetron”.
Nel giugno del 2000, quando giungono le prime segnalazioni di effetti collaterali, l’azienda dichiara che “la colite ischemica appare più spesso del previsto, ma ad ogni modo il pericolo è acuto, transitorio e autolimitante”. Quindi non ci sono problemi.
Nell’aprile del 2002, quasi due anni dopo, finalmente l’azienda ammette: “I nostri risultati mostrano che nei soggetti trattati c’è un aumento di cinque volte di sviluppare la colite ischemica”. D’altra parte i dati parlano chiaro. Dal momento della commercializzazione sono stati segnalati: 113 casi di complicazioni gravi, 84 casi di colite ischemica, 6 casi di ischemia del piccolo intestino che hanno portato a oltre 50 interventi chirurgici e almeno 7 morti.
Nonostante questi dati, l’azienda farmaceutica nel dicembre 2001 chiede la reimmissione in commercio del suo prodotto con restrizioni d’uso. Un nuovo Comitato dell’FDA risponde che si può rimettere sul mercato il farmaco ma con restrizioni severe. Il che significa che può essere somministrato soltanto da medici che abbiano superato un test e che siano specialisti di questa branca della medicina.
Il 7 giugno 2002, però, la FDA approva la reimmissione in commercio del farmaco non facendo proprie le raccomandazioni del Comitato e attenuando le regole restrittive chieste dai consulenti. Poco dopo esce sul British Medical Journal (2002; 325: 561) un articolo dal titolo eloquente: “I consulenti della FDA mettono in guardia sul rischio di nuove morti se il farmaco viene rimesso in commercio”.

L’accusa all’FDA
Uno dei membri del Comitato, Paul Stolley, che tra l’altro è presidente dell’Associazione americana di epidemiologia dichiara che la “FDA è asservita alle aziende farmaceutiche. Al suo interno le voci di dissenso vengono messe a tacere e il dibattito scientifico represso. Nel caso alosetron l’FDA era in partnership con l’azienda produttrice. Ma l’FDA dovrebbe negoziare e non essere un partner. Perché c’è questa partnership? Perché l’FDA è sostenuta finanziariamente dalle aziende farmaceutiche”.
Janet Woodcock, per conto dell’FDA ribatte: “l’alosetron ha offerto un grande esempio della difficoltà di offrire un farmaco pericoloso a chi ne ha un grande bisogno. .Dobbiamo essere responsabili e non prendere posizioni dettate dall’emozione”.
In realtà un fatto in questa storia merita attenzione: la reimmissione dell’alosetron sul mercato è stata chiesta anzitutto dai malati. Subito dopo il suo ritiro dal commercio è stato creato il Lotronex Action Group (Lotronex è il nome commerciale del farmaco), con l’unico obiettivo di riavere questo farmaco per essere curati. Contemporaneamente una società scientifica che vive grazie ai fondi delle aziende farmaceutiche, la International Foundation for Functional Gastrointestinal Disorders, aveva spinto per la reimmissione in commercio del farmaco. In poche parole la nuova commercializzazione del farmaco non è venuta sulla spinta diretta dell’azienda produttrice, ma dai malati e da una società scientifica. In sostanza la FDA ha potuto dire: “noi facciamo solo il bene dei malati, sono loro che vogliono questo farmaco e con loro la società scientifica”.

I quesiti aperti
A questo punto rimangono almeno tre quesiti aperti.

1. Che cosa accadrà ora che il farmaco è in commercio?
2. Che cosa dire ai malati che lo assumono?
3. Come comunicare al malato il rischio cui va incontro?

1. “Se due milioni di donne negli USA venissero trattate con l’alosetron, ci sarebbero 2.000 casi di stitichezza grave, 5.714 casi di colite ischemica, con 1.109 interventi chirurgici in più ma, soprattutto, 329 morti. A fronte di tutto ciò si può calcolare che 240.000 donne avranno sollievo dai sintomi” (BMJ 2002;325:555). Quindi, trattando due milioni di donne, la maggior parte avrà un beneficio, anche se circa 300 moriranno. Ma era stato loro detto che potevano morire a causa del farmaco?

2. La FDA se ne lava le mani e dice: “le pazienti dovranno firmare un consenso informato che attesti che sono state preventivamente informate dei rischi”. Ma la responsabilità non può e non deve essere trasferita sul paziente: il rapporto tra medico e paziente deve essere paritario, il malato va coinvolto e gli devono essere chiariti i rischi e i benefici e la decisione finale va presa insieme.

3. In che modo dire ad una persona che rischia qualcosa, e quanto rischia? Troviamo una copiosa letteratura al riguardo e tutta dimostra quanto sia difficile raggiungere l’intento. Si possono usare esempi della vita quotidiana per far capire quanto frequente è un evento positivo o negativo (vedi figg. 3 e 4)

rischio intervallo esempio stimato
alto > 1:100 Trasmissione morbillo a familiare 1:1-1:2
Effetti gastrointestinali antibiotici 1:10-1:20
moderato 1:100-1:1.000 Fumo (10 sigarette al giorno) 1:200
Cause naturali, 40 anni 1:850
basso 1:1.000:1:10.000 Violenza e avvelenamento 1:3.300
Influenza 1:5.000
Incidente stradale 1:8.000
molto basso 1:10.000-1:100.000 Gioco del calcio 1:25.000
Incidente domestico 1:26.000
Incidente sul lavoro 1:43.000
Omicidio 1:100.000
minimo 1:100.000-1:1.000.000 Incidente ferroviario 1:500.000
Antipolio 1:1.000.000
trascurabile > 1:1.000.000 Fulmine 1:10.000.000
Radiazioni da centrale nucleare 1:10.000.000

Figura 3 – tratta da BMJ 28 sett 1996; 313: 799

Figura 4 – tratta da BMJ 7 sett 2002; 325: 548

In tal modo il paziente può decidere se affrontare o meno quel rischio prendendo a paragone una situazione che gli è più comune, come quella di salire su un treno e avere un incidente ferroviario o giocare una partita a pallone e morire di morte improvvisa.
Un altro sistema è quello iconografico, in cui il rischio viene trasformato in immagine. E’ l’esempio riportato nella fig. 5:

Figura 5 – tratto da BMJ 6 apr 2002; 324: 827

Questo disegno viene mostrato a una mamma che ha il bimbo colpito da un’otite. Il bambino piange perché ha male all’orecchio. Che cosa si deve fare? Dargli o no l’antibiotico? Che cosa succede se glielo diamo? Succede che su 100 bambini a cui è stato somministrato l’antibiotico, solo cinque non avranno più male all’orecchio per effetto del farmaco, mentre nove bambini, nonostante l’antibiotico, continueranno ad avere dolore. I restanti 86 bambini non avrebbero più avuto dolore anche se non avessero preso l’antibiotico. Ciò sta a significare che per far passare il dolore a un bimbo con l’otite bisogna trattarne 20. Questo va detto alla donna e solo a questo punto la decisione della mamma potrà essere motivata.

Il percorso della notizia
La storia dell’alosetron deve far riflettere e insegnare qualcosa a chi fa comunicazione (i giornalisti) e a chi riceve i messaggi (il pubblico, specializzato o meno che sia).
In sintesi si può affermare che la notizia ha un suo percorso che segue diverse fasi, che per fortuna non sempre vengono seguite fino in fondo.
Prendiamo l’esempio della notizia di un nuovo farmaco. Abbiamo un entusiasmo iniziale: il farmaco cura una data malattia molto diffusa, oppure è un farmaco che cura una malattia rara ma grave. Viene subito presentato ai lettori come un progresso della scienza.
In una seconda fase i medici cominciano a manifestare i primi dubbi legati non tanto o non solo all’efficacia del farmaco, quanto ai suoi effetti collaterali che emergono solo sui grandi numeri. Questa fase non arriva di solito al grande pubblico ma si ferma alle istituzioni, per cui la gente resta convinta di quanto ha letto o sentito nella fase iniziale di entusiasmo. I giornali e le televisioni infatti non raccolgono queste perplessità e non informano i loro lettori su questi effetti avversi.
A fronte della comparsa degli effetti negativi l’azienda che produce il farmaco tenta di focalizzare meglio il paziente che ne trae beneficio: ci sono sì effetti avversi ma i vantaggi legati all’efficacia in quel tipo di pazienti è indiscutibile.
Infine si arriva, per fortuna solo in pochissimi casi, alla fase dello “scandalo”, di solito dovuto alla segnalazione di morti legate all’uso. E qui tornano in gioco i mass media e si ricomincia a parlare di quella terapia stigmatizzando solo i lati negativi e trascurando quelli positivi. Basta ricordare l’esempio della cerivastatina ritirata dal commercio nel 2001 perché ha provocato delle morti per rabdomiolisi. Quella statina è stata considerata nei titoli dei giornali un killer e subito tolta dal commercio. Eppure val forse la pena di ricordare che il numero dei casi di rabdomiolisi descritti in letteratura per questo farmaco è molto inferiore a quello di rabdomiolisi da consumo eccessivo dell’apparentemente innocua liquirizia. Con un po’ di saggezza e cautela si può in questi casi fornire al pubblico un’informazione corretta e non allarmistica, pensando soprattutto a chi è in quel momento in terapia con quel dato farmaco.
Su questi aspetti è stato recentemente pubblicato su JAMA, la rivista dell’Associazione medica americana (JAMA 2002;287:1455), un articolo che traccia il destino di una terapia, in questo caso un vaccino contro i rotavirus, prima osannata e poi caduta nella polvere per i suoi effetti collaterali.

Qualche proposta
Allora, come è possibile ovviare a tutto ciò?
In primo luogo è necessario che gli operatori sanitari pongano maggior cura alla comunicazione. In secondo luogo i giornalisti devono munirsi di un sano senso critico e degli strumenti che gli consentono di applicarlo nel lavoro quotidiano. In tal senso è obbligatoria una sensibilità particolare verso i conflitti di interesse che sono alla base delle informazioni di parte, che possono venire da aziende farmaceutiche, ma anche da ricercatori o dalle istituzioni. Conflitto di interesse che spesso è presente nel giornalista stesso. Tutti noi siamo soggetti infatti ai conflitti d’interesse. L’importante è saperlo e renderlo noto ai lettori, in modo che possano valutare se l’informazione che gli stiamo dando è attendibile e quanto lo è.
Il pubblico, da parte sua, deve imparare ad acquisire capacità critiche quando si affrontano temi che riguardano la propria salute. E per fare ciò deve migliorare la cultura su questi temi, partendo dalla conoscenza del proprio corpo e del suo funzionamento.
Qual è allora l’informazione ideale? E’ quella che non ha entusiasmi iniziali, non ha titoli strillati, ma ha da subito un approccio critico che possiede tutti i dati per poter fare una corretta valutazione. Si dovrebbe essere il più possibile obiettivi. Ogni affermazione deve essere basata su dati di fatto, su prove scientificamente affidabili. E’ l’evidence based journalism, corrispettivo dell’ormai imperante evidence based medicine.
Bisogna ricordare che le informazioni che si danno influenzeranno inevitabilmente il comportamento dei lettori. Senza mai dimenticare che l’indipendenza dell’informazione è una delle conquiste più importanti, che si trova quotidianamente a combattere con i conflitti di interesse. Lo sapeva già La Rochefoucauld quando affermava nelle sue Massime che “le virtù si perdono nell’interesse come i fiumi nel mare”.

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Dibattito

Prof. Alberto Malliani

Desidero fare alcune piccolissime precisazioni rispetto a quanto ha detto il Prof. De Ferrari. Come io dico sempre non vivo di nostalgia e neppure voglio fare il marinaio del ‘600. Il mondo sta migliorando, migliora in un modo strano, però migliora. Se vengono fuori le linee guida è ovvio che qualcosa di buono ci sia, ciò si oppone all’essere ciarlatani.
Il problema però, dal mio punto di vista di clinico, sta nel fatto che il clinico non incontra la cavallinità, ma il cavallo. Le linee guida parlano di cavallinità quando mettono in fila venti farmaci, poi è sempre il clinico che deve scegliere. Nel momento in cui la linea guida non è rigida allora in sostanza diventa un libro. Nel libro si trovavano le descrizioni delle malattie, sapendo che il malato è altra cosa della malattia e anche nel libro venivano descritte le varie terapie. In sostanza, o la linea guida è rigida ed è un binario, oppure non è rigida e non è un binario. Su un piano concettuale e profondo intendo la linea guida come un protocollo diagnostico. Faccio un esempio: arriva un malato con un dolore al petto, gli si fa fare il cardiogramma, successivamente l’eco. Questo c’era anche nei libri. Poi l’interpretazione degli esami essendo effettuata da esseri fallibili, può anche essere sbagliata e qui entra in gioco la sensibilità del clinico.
Dove io ho espresso toni critici rispetto alle linee guida che non sono nel senso interpretato dal Prof. De Ferrari che è persona tutt’altro che naif, è perché vedo nelle linee guida molto conflitto d’interesse.
Non è mia intenzione fare delle crociate contro le linee guida, occorre però fare delle riflessioni almeno su tre punti:
– rapporto medico-paziente
– l’industria farmaceutica che produce i farmaci e li vuol vendere
– il terzo è sintetizzato dall’editoriale del New England General Medicine che si domanda “La medicina accademica è in vendita? “ La risposta è sì.
Se si riflette su quest’ultimo punto dobbiamo fare delle considerazioni amare sulle società scientifiche che dovrebbero essere i garanti della salute dei cittadini. Gli accademici ricevono tali e tante pressioni dalle case farmaceutiche che si arriva a vederli cambiare status in dieci anni. Status che non poteva cambiare così radicalmente lavorando in modo limpido. Si può osservare come certi accademici che parlavano per nome delle case farmaceutiche venivano da queste sollecitati a parlare sempre più e creavano altri “illuminari” che dell’illuminazione avevano solo il fuoco del conflitto d’interessi.
Da questo se ne deduce che la società scientifica deve essere rifondata. Dobbiamo avere una società scientifica neutrale e per ottenere questo abbiamo bisogno dei malati, dei Movimenti come il vostro, occorre una consapevolezza come la vostra.
Le linee guida possono anche andare benissimo purché siano ripulite.
Il Prof. De Ferrari ha detto una cosa molto giusta. Quando io parlo del coraggio del medico e della Medicina di assumersi le proprie responsabilità, parlo da accademico. E’ molto facile per il capo di un dipartimento, presidente di una società scientifica, dire: “io ho sbagliato”. Viene da pensare che se ha sbagliato lui doveva proprio essere stata una situazione difficile. Il medico di medicina generale che è solo, abbandonato, che soffre d’isolamento, ha certamente molte maggiori difficoltà ad ammettere il suo errore e dire “ho sbagliato” Anche lì, come in altre situazioni, la giustizia non è uguale per tutti. Ci sono tante forme di giustizia! Il medico di medicina generale è molto esposto. E’ esposto all’informazione drogata e non ha il tempo di procurarsi un’informazione neutrale. E’ un medico molto esposto ai rischi.. Sarebbe opportuno che anche il paziente vedesse i vari livelli di responsabilità. Io mi accanirei di più contro un accademico, che non verso un medico di medicina generale. Se volete fare dei finimondi fateli sugli accademici, che comunque hanno le ossa per resistere.

Prof. Giuseppe Romanelli
Grazie Signora Tretti per aver organizzato questa magnifica serata. Parto dalla sua affermazione che l’80% delle persone che si rivolgono a Lei, Signora Tretti, poi non hanno qualcosa di concreto per portare avanti un contenzioso.
Questo 80% non avrà delle ragioni giuridiche per portare avanti una lamentela, ma qualcosa di sbagliato ci deve essere stato. Sbagliata la comunicazione tra noi medici e i malati, in caso contrario non sarebbero andati al Movimento per i diritti del malato.
E allora domando al mondo accademico che per anni ci ha in segnato a sconfiggere la malattia ad ogni costo, a pensare che la Medicina non è fatta solo per i malati acuti. Bisogna invece riflettere sul fatto che l’80% delle persone sono malate di affezioni croniche e quindi la mentalità dei medici, il nostro approccio al malato deve cambiare e deve cambiare anche la formazione dei medici.
E’ molto gratificante per un medico sconfiggere la malattia acuta piuttosto che seguire nel tempo un malato che ha una malattia inguaribile e che, a volte, può anche diventare noioso, ma è proprio il malato cronico che abbisogna delle attenzioni del suo medico.
Il tema di questa sera “Medico e malato divisi dall’errore” non mi trova d’accordo, perché io questa divisione non la vedo. Sono un ottimista e credo che l’errore ci unisca. Questo perché ci sono sempre più errori scoperti, perché c’è sempre più cultura, perché c’è maggiore presa di coscienza.da parte del medico e da parte sicuramente dei malati e pensiamo che la medicina può crescere, come diceva il Prof. Malliani, sugli errori, cioè sulla presa di coscienza.
Sono anch’io un laico ed ho una precisa posizione politica ben definita, ma lasciamo da parte le polemiche e vediamo di crescere tutti, di crescere appunto per il bene del malato.

Dr. Giuliano Cozzaglio
Vorrei premettere che il mio non vuol assolutamente essere un intervento critico, anzi plaudo all’iniziativa della Signora Tretti con la quale abbiamo avuto diversi scambi in questi anni e sicuramente fruttuosi e condivido le parole del Prof, De Ferrari che a Brescia non c’è il Tribunale del malato ma c’è un Movimento per i diritti del malato.
E condivido anche che a Brescia l’errore medico esiste, sarebbe impensabile il contrario, ma in dimensioni certamente più accettabili che altrove. Purtroppo sono arrivato in ritardo, ma ho comunque sentito una quantità di cose giuste e condivisibili. Il mio timore è comunque che l’unica cosa che si rischia, in un dibattito, è che si facciano o si asseriscano degli assiomi o si portino avanti delle teorie assolutamente inconfutabili e perfette, ma che si scontrano con la realtà, che è cosa diversa.
Io come tanti colleghi presenti ed anche quelli non presenti siamo andati ai congressi, qualche volta arrangiandoci, altre volte sponsorizzati. Nei congressi abbiamo sentito molte stupidaggini, ma ci è stato anche consentito di avvicinarci alla conoscenza. Siamo andati a congressi all’estero e lì siamo venuti a conoscenza di realtà diverse. Ci siamo confrontati con altre conoscenze e, secondo quanto afferma l’O.M.S., abbiamo raggiunto un ottimo livello in sanità. Sembrerebbe addirittura che la sanità italiana sia la seconda nel mondo. Forse non saremo i secondi, ma certamente non saremo gli ultimi.
Ma se, come ho detto prima, lo Stato ha stanziato poco o nulla per la ricerca qualcuno deve pur averci pensato.
Allora, lasciando perdere il passato perché alla fine queste critiche risulterebbero sterili, vediamo allo stato attuale che cosa si può fare: per primo un invito ai politici e qui l’invito è al Sindaco, per aprire prospettive per il futuro e quindi far aderire tutti alle indicazioni di Malliani e anche di Dri. Nel senso che la società scientifica utilizzi pure l’industria farmaceutica purchè sia palese il conflitto d’interessi. Si eviteranno, a questo modo, gli equivoci. Si risolverebbero così nell’immediato, molti problemi che riguardano i fondi per la ricerca e soprattutto per la formazione.
Il precedente Ministero aveva deciso in maniera sperimentale, e l’attuale ministro in via definitiva, di indicare i fondi per l’ E.C.M. Si sono però dimenticati di stanziare per l’E.C.M. i fondi. Così non avendo fondi si pensa alle cose più strane. Si parla ad esempio di Provider. Ma i Provider non possono essere le industrie, allora si escogitano le Agenzie che si collegheranno alle industrie. Si fa così una bella triangolazione.
Si inventa di tutto e di più per fare educazione medica o formazione. Il senso della mia puntualizzazione è questo: se vogliamo fare ricerca e formazione occorrono i soldi. Può sembrare brutto e volgare, ma non è il caso di nascondersi dietro un dito: o lo Stato stanzia i fondi, facendo delle scelte oculate, o viceversa bisogna che i soldi li tiri fuori l’industria. Quindi può andar bene anche l’intervento del privato purché il conflitto d’interesse sia sempre palesato.

Replica del Dr. Pietro Dri
Condivido la questione dei fondi stanziati da parte dei privati. I dati internazionali sono che il 70% della ricerca sia condotta grazie ai fondi alle aziende farmaceutiche. In Italia questa percentuale è ancora più alta.
Voglio ricordare che in Italia la percentuale stanziata dallo Stato per la ricerca è pari all’1% del PIL e che in Svezia è del 3%. In sostanza noi dedichiamo alla ricerca con fondi pubblici, la stessa cifra della Corea che ha un PIL esattamente la metà del nostro.
Quindi se l’Italia vuole fare ricerca, necessita di fondi statali e se questi non arrivano occorrono fondi privati purché questi siano resi palesi. Così tutti possiamo andare d’accordo e chi ne avvantaggia è la ricerca e quindi la salute di tutti.

Replica del Prof. Alberto Malliani
Anch’io vorrei aggiungere una cosa al bell’intervento del Dr. Cozzaglio. Intanto non bisogna essere manichei. L’industria farmaceutica, senza alcun dubbio, rappresenta un patrimonio nella società civile. Se i medici possono curare i malati lo debbono ai farmaci, non alle erbe. Vediamo quindi anche il lato altamente positivo dell’industria farmaceutica.
L’industria farmaceutica è vero che spende per la ricerca, ma non spende per la ricerca di base. Noi siamo una zona mondiale dove siamo solo compratori: siamo un mercato e basta. Tutta la ricerca di base viene fatta altrove. Lo Stato Italiano soffre da sempre di povertà culturale, si veda il continuo degrado del C.N.R. fino ad oggi dove si paventa il probabile suo smantellamento. Tra un po’ di tempo smantelleranno anche l’A.S.L. In sostanza tutto quello che è il supporto nazionale alla ricerca di base, continua a diminuire.
Ma per essere non solo critici, ma anche propositivi io credo si debba obbligare l’industria farmaceutica a dare una percentuale dei fondi destinati alle ricerche applicate per la ricerca di base e impedire per legge i trials di pura equivalenza. Mi spiego meglio: è inutile spendere centinaia di miliardi per dimostrare fra due farmaci uguali qual è dei due il migliore. E per determinare il migliore si fa un grande lancio commerciale con fior di inviti a Capri, Ischia e Montecarlo. Queste pseudo ricerche dovrebbero essere dichiarate fuori legge.
Quanto poi concerne l’accreditamento, che è un punteggio che viene assegnato ai medici quando partecipano a convegni utili alla loro formazione, posso dire che in novembre ci sarà un Congresso di medicina generale a Milano ed io in qualità di Presidente ho chiesto che i crediti vengano assegnati soltanto per eventi istituzionali. ed in cui ognuno dei partecipanti dovrà dire di non essere in conflitto d’interessi con quello che sta per dire. Questa dichiarazione vincolerà il medico a palesare il conflitto d’interesse. E’ la prima volta che in Italia una società scientifica si pronuncia in questo senso. E’ chiaro che se una società farmaceutica indica al medico quali gli argomenti che dovrà trattare, allora io vedo anche qui il conflitto d’interesse.
Le altre società scientifiche, escluso quindi la società dei medici di medicina generale, hanno presentato un programma misto, dove venivano messi insieme sia gli eventi sponsorizzati che quelli non sponsorizzati.
Questo è da Magistratura. Se poi in Italia nessuno fa controlli e quelle iniziative sono operative allora si entra in un altro problema. Si tratta di etica, non di chiacchiere.

Intervento di Marisa Clementoni Tretti
Desidero lanciare a questo punto una sfida: sarebbe abbastanza arido finire questo incontro dopo aver sentito molte cose interessanti e poi ritornare a casa e ricominciare il nostro lavoro come prima. I medici come medici, i malati come malati e noi altrettanto. Per cui mi permetto di chiedere a tutti i presenti che vogliono tentare di cambiare le cose, di mettersi in contatto con noi , così come è stato fatto per un nostro precedente incontro. Dopo quel convegno si era ottenuto qualcosa: si era istituito un tavolo di confronto dove diverse figure professionali e non professionali come noi, si erano messe a confronto e ne era nato qualcosa di buono.
Dateci una mano affinché questo incontro abbia un seguito significativo per fare in modo che, come diceva il Prof. Romanelli, non ci sia questa divisione tra medici e malati, ma ci sia invece collaborazione che non va confusa col consociativismo, che noi aborriamo in modo deciso, ma sia invece un modo diverso di vedere le cose e di vederle insieme da angolature opposte.

Dr. Massimo Gandolfini
Sono un Neurochirurgo. Desidero ringraziare per la competenza e chiarezza delle relazioni.
A mio avviso, si deve sempre ribadire il detto proprio della comune saggezza ed esperienza popolare: ” errare humanum est”. Esiste, cioè, una possibilità di errore che è inevitabile in quanto connaturato con quella natura umana che – per definizione – è fallibile e fallace.
E’ in dubbio che in ambito medico (ma non solo!) un errore può avere conseguenze dolorose e drammatiche. Quindi, l’errore medico è sempre esistito e sempre esisterà per quanto poniamo (e dobbiamo porre) ogni impegno professionale ed umano affinché accada il più raramente possibile.
Rispetto al passato, la novità dello scenario attuale riguarda la modificazione del rapporto medico-paziente che va assumendo toni di diffidenza, di sospetto reciproco, fino alla conflittualità.
So di aprire un dibattito che richiederebbe ben altro tempo per poter essere afrontato ed approfondito.
Mi limiterei a qualche dubbio, che formulo ad alta voce, rivolgendolo innanzitutto a me stesso: una ragione non risiederà nel fatto che stiamo diventando sempre più tecnocrati e/o burocrati, con scarsa attitudine al dialogo, alla relazione rispettosa ma anche affettuosa con il nostro paziente? Non stiamo diventando troppo “maestri di medicina” e sempre meno “maestri d’umanità”? Il clima che regola, oggi, il rapporto medico-paziente viene definito di, “alleanza terapeutica”.
Non vorrei sembrare esagerato o disfattista, ma credo di non essere lontano dalla verità se affermo (e lo credo fermamente) che una reale alleanza terapeutica non esiste. Il divario “culturale tecnico” tra il medico (depositario della cultura tecnica) ed il paziente (oggetto di tale cultura) è obiettivamente incolmabile anche dal miglior modulo di consenso informato, o dal più accurato e leale dialogo dì esplicitazione e coinvolgimento decisionale.
Forse che non accada questo anche a noi medici quando dobbiamo sottoporci a cure specialistiche di cui è esperto e garante un altro nostro collega? Non finiamo forse anche noi col pronunciare la storica frase “mi affido a te: comportati come faresti se fossi tuo fratello o tuo figlio”! E’ paternalismo questo? E’ imporre “paternalisticamente” la propria autorità culturale o non è invece una richiesta carica di umanità a comportarsi secondo quella scienza e coscienza che un buon padre di famiglia applicherebbe ad un suo figlio caro?
Al di la della formule, che possono correre il rischio di dire quello che non sono (ad esempio, al termine “paternalismo” si può riferire una connotazione negativa o positiva), vorrei esplicitare più chiaramente il mio pensiero, riferendomi ad un momento storico. A Berlino, è rimasta intatta l’architrave di un ospedale bombardato alla fine della seconda guerra mondiale; vi si legge “ACCIPERE QUASI CHRISTUM”, accogliere come fosse Cristo. Per un medico cattolico si sa bene cosa si intenda; ma anche un Collega “laico” non può non cogliere il moto di carità e di umanità con il quale si invita ad accostare il proprio prossimo sofferente.
Ritengo, infine, che anche la formazione universitaria dovrebbe mirare al nobile scopo di educare medici “maestri di umanità”.

Prof. Francesco De Ferrari
Un flash in risposta al dottor Gandolfini. Sono anni che discutiamo sul tema dell’alleanza terapeutica e non siamo mai d’accordo.
Il paternalismo va proscritto, il paternalismo è una malattia.. Non si deve confondere il rispetto verso il paziente, il rispetto verso il suo limite di comprensione per non cadere nel terrorismo e l’atteggiamento imbonitorio per mettere il malato nella stessa condizione di Fracchia sul puff di fronte al mega direttore generale che gli spiega le cose. Questo è il contrario, questo è l’eccesso e non è certo l’alleanza terapeutica.
Per alleanza terapeutica si deve intendere la capacità di far capire al malato che siamo sullo stesso livello empatico così come ha ben detto il Sindaco nel suo intervento: il medico deve sentirsi uguale a me.

In questi anni ho cercato di diffondere una frase per il consenso informato, che io ritengo irrinunciabile, che è questa: “certifico di aver avuto un colloquio informativo” Non serve a niente piazzare in mano al malato 25 fogli scritti e poi dirgli di tornare all’indomani per vedere se li ha capiti. Questo è tutto tranne che l’alleanza terapeutica, che invece pur non colmando il divario di conoscenze, deve consentire al medico e al malato di confrontarsi sullo stesso piano umano. Solo questo volevo precisare.

Dr. Anna Orru
Sono un medico che ha fatto per 44 anni la rianimatrice anestesista e sono transitata dal Tribunale del malato per approdare poi al Centro dei diritti del cittadino che ha gli stessi scopi ed obiettivi del Movimento per i diritti del malato di Brescia. Io sono perfettamente d’accordo con quanto ha detto il Prof. De Ferrari.
Credo ad esempio che l’anestesista che vede il malato prima dell’intervento e non lo accompagna in sala operatoria non faccia bene il suo mestiere. Io ho sempre spiegato prima e accompagnato poi ed ho avuto dei grandi ritorni in termini di gratitudine. Sono stata fortunata perché ho avuto un grande maestro che diceva sempre: “se il malato non ha capito è perché sei tu che non sei stata capace di parlare”.
Penso di aver avuto una grande serata e vi ringrazio. Nel luogo dove svolgo la mia attività di volontariato ho potuto verificare anch’io che spiegando le cose si ha una rinuncia alle azioni legali che direi anch’io attorno all’80%.
Malgrado i miei 73 anni sento sempre una grande ribellione nei confronti di quei colleghi che per non essersi saputi rapportare ai malati li hanno indotti a rivolgersi al medico legale e poi al legale. Credo sia assolutamente indispensabile, per ottenere un rapporto più umano con i malati, imparare a comunicare, a spiegare senza quell’arroganza che tante volte traspare dai racconti dei malati o dei loro parenti che si rivolgono al mio centro di ascolto. Grazie ancora a tutti per questo bellissimo incontro.

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Conclusioni

Marisa Clementoni Tretti

Per concludere mi farebbe piacere che potessimo uscire da questa meravigliosa sala di S. Barnaba con all’attivo qualcosa di concreto. E allora, poiché sono qui presenti alcuni Direttori Sanitari ed amministratori apicali perché non adoperarsi affinché le clausole vessatorie che incombono sulle polizze stipulate dagli ospedali e case di cura non siano in un prossimo futuro oggetto di contrattazione con le compagnie assicuratrici.
E per tornare al tema del nostro incontro e più in particolare a quello che ci ha detto il Prof. Malliani sull’ammissione dell’errore, facciamo in modo che l’ammissibilità dell’errore, almeno nel nostro territorio, diventi una consuetudine.
Come avrete notato nella nostra Carta dei Diritti del Malato, il tema dell’errore è stato toccato in modo molto sfumato, ma è già un primo passo verso la via indicataci dal Prof. Malliani. In futuro cercheremo di fare di più e meglio affinché il cittadino che ha subito un torto documentato e certo, non debba disperarsi per ottenere un giusto risarcimento, ma siano già le Direzioni amministrative ad iniziare le procedure opportune.
Questa serata, per non essere stata solo il momento di un bell’incontro, deve portarci ad ottenere almeno questo risultato: chi sbaglia paga e nessuno sia costretto a mentire.
Ringrazio tutti gli intervenuti, ricordando che il convegno ha potuto realizzarsi sia per l’apporto di tutte le persone che con passione e determinatezza lavorano all’interno del Movimento, che per il contributo determinante del dottor Ovidio Brignoli e del dottor Paolo Pelizza ai quali va gran parte del merito del successo culturale, informativo e organizzativo della serata.

Arrivederci a presto per un altro incontro al quale fin da ora siete tutti invitati.

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