Mancanza di consenso

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Mancanza di consenso e dolo del medico.

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 21799 della Sezione IV, penale. dell’8 giugno 2010, è tornata ad affrontare il rapporto tra mancanza di consenso all’atto medico e configurabilità penale dell’illecito.

La IV sezione penale della Corte di Cassazione torna sul tema della configurabilità del reato di lesione volontaria o, in caso di morte, di omicidio preterintenzionale, in assenza di consenso informato, laddove sia esitato un danno al paziente.

La precedente sentenza sul caso noto come “Massimo [1]” (di ormai quasi due decenni fa) sembrava superata dalle successive evoluzioni della giurisprudenza e circa dieci anni dopo [2] la Suprema Corte affermava che“affermare l’intenzionalità della condotta, ogni volta che non vi sia il consenso del paziente, significa, in realtà, confondere il problema della natura del dolo richiesto per la fattispecie criminosa in esame con l’esistenza della scriminante costituita dal consenso dell’avente diritto”. E ancora, poco dopo [3], trattando dell’intervento medico in presenza di dissenso affermarva potersi profilare a carico del medico il reato di violenza privata ma non – nel caso in cui il trattamento comporti lesioni chirurgiche ed il paziente muoia – il diverso e più grave reato di omicidio preterintenzionale, non potendosi ritenere che le lesioni chirurgiche, strumentali all’intervento terapeutico, possano rientrare nella previsione di cui all’art. 582 cod. pen. Infatti, l’attività strumentale posta in essere dal chirurgo – quale l’incisione della cute – è priva di una propria autonomia funzionale, rappresentando null’altro che “un passaggio obbligato verso il raggiungimento dell’obiettivo principale dell’intervento, quello di liberare il paziente dal male che lo affligge”.

In sintesi questa la vicenda ora all’esame della Cassazione: il denunciante si era affidato al medico, ora imputato,  per un’elevata miopia ed astigmatismo ad entrambi gli occhi. Dopo aver effettuato una normale visita oculistica, l’imputato aveva suggerito l’opportunità di effettuare un intervento correttivo, definito routinario, al quale il paziente si era poi sottoposto. Sia durante la visita che prima dell’intervento, il dott. P. non aveva fornito al denunciante alcuna informativa in relazione al prospettato intervento, lasciando tuttavia intendere che avrebbe eseguito un intervento tipo lasik, tecnica che egli dichiarava di conoscere bene per essersi preventivamente ed opportunamente informato. Si era poi appurato che l’intervento effettuato era stato di tipo PRK e non lasik, ed a tale tipo di intervento il querelante aveva dichiarato che non si sarebbe mai sottoposto. Si era anche accertato che la struttura sanitaria presso la quale operava il dott. P. non era attrezzata per l’esecuzione di interventi in lasik, ma solo per interventi di tipo PRK. Dall’intervento così effettuato erano derivate le lesioni indicate nel capo di imputazione.

Il Gup, con sentenza del 2008, aveva dichiarato di non doversi procedere per il reato di lesioni personali colpose (perché prescritto); il procuratore aveva impugnato la sentenza in Cassazione, chiedendo di configurare il reato come lesioni dolose gravi (ex articolo 582 Cp), dato l’esito dannoso dell’intervento.

La Cassazione rileva che:

La CTU di 1° grado (e il giudice di merito), hanno ricollegato eziologicamente il danno qualitativo e quantitativo all’integrità fisica di natura permanente (alterazioni corneali centrali cicatriziali, situazione di annebbiamento visivo e di facile abbagliamento, con riduzione del visus non correggibile ulteriormente con lenti) alla condotta del sanitario che omise di eseguire gli esami preliminari indicati per la chirurgia con laser ad eccimeri, necessari sia per l’intervento lasik che PRK (risultando irrilevante la scelta del metodo essendo le due tecniche ritenute simili in termini di efficacia e predittività per la correzione delle miopie, indipendentemente dal grado presentato) ed avendo quindi omesso di valutare possibili controindicazioni all’operazioni chirurgica;

inoltre il sanitario ha operato con imprudenza ed imperizia tentando una correzione di un astigmatismo miopico composto obiettivamente molto elevato, prescindendo dalla conoscenza delle caratteristiche topografiche e di spessore corneali, elementi fondamentali per decidere i parametri di esecuzione del trattamento laser.

Su tali presupposti la Corte rileva trattarsi di una condotta talmente anomala da esorbitare di gran lunga dai canoni della mera imprudenza, imperizia o negligenza.

Inoltre la struttura sanitaria ove operò l’imputato non era attrezzata per l’intervento lasik ma solo per quello PRK, sicchè era ab origine da escludere la possibilità della prima modalità esecutiva dell’intervento e di tanto non poteva essere ignaro il medico che vi operava.

Ciò implica che il consenso del paziente all’intervento non fu solo invalido e non ritualmente informato, ma nemmeno liberamente prestato, dovendosi riconoscere che “a monte” fu anche fraudolentemente carpito.

Dunque si è in cospetto di una anomalia della condotta del medico talmente grossolana da non consentire di ragionare in termini di mero eccesso colposo (art. 55 c.p.) finanche nell’erroneo presupposto dell’esistenza di una esimente (art. 59 c.p.), dovendosi necessariamente constatare che il medico travalicò gli estremi limiti di una condotta consapevolmente colposa (colpa cosciente) laddove fu piuttosto animato da una palese volontà che accettò pienamente ed in via preventiva il rischio dell’evento lesivo poi verificatosi (dolo eventuale).

Se il consenso del paziente funge da indefettibile presupposto di liceità del trattamento medico … in ogni caso l’illiceità dell’intervento terapeutico del sanitario eseguito in difformità dal consenso prestato o in sua assenza, va posta in necessaria correlazione con l’esito infausto.

Se tale intervento è stato posto in essere nella piena coscienza dell’esplicito dissenso del paziente o peggio, come nel caso di specie, carpendone il consenso in relazione ad una modalità esecutiva dell’intervento a priori oggettivamente non attuabile, deve ravvisarsi non solo la imprescindibile volontà di incidere sulla incolumità individuale, che è il bene protetto dalla norma, attraverso la necessaria e propedeutica lesione strumentale chirurgica, ma anche quella peculiare di procurare – quanto meno sotto il profilo della preventiva accettazione del rischio della sua verificazione – il consequenziale evento dannoso finale, cioè quello non apprezzabile come fausto nei termini come sopra precisati dalla sentenza n. 2437 del 18.12.2008 delle Sezioni Unite.

Questo va, quindi, imputato a titolo di dolo, non di colpa (ravvisabile nel concreto espletamento dell’intervento terapeutico meramente non assentito, con esito infausto), non essendo richiesto per il reato di lesioni personali volontarie il dolo specifico e rimanendo, perciò, del tutto irrilevante che l’atto terapeutico, che ha cagionato la malattia finale, sia stato posto in essere al fine di guarirne altra o assicurare un più appagante assetto psico-fisico “sul piano della valutazione complessiva della salute”.

Ne consegue la natura prettamente dolosa del reato quale originariamente contestato e l’annullamento dell’impugnata sentenza con rinvio al Giudice competente che si atterrà al principio di diritto per cui: la condotta del medico che intervenga con esito infausto su paziente che abbia espresso il dissenso nei confronti del tipo d’intervento chirurgico rappresentatogli, deve essere qualificata come dolosa e non colposa.

Paolo Pelizza

 

[1] Cass. Penale Sez. V, 21 aprile 1992, n. 5639, sentenza Massimo

[2] Cass. Penale, Sez. IV, 9 marzo 2001, n. 28132, sentenza Barese

[3] Cass. Sez. I, 29 maggio 2002, n. 26446, sentenza Volterrani

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